I suiseki in un fumetto giapponese – Prima parte
La donna percorre la riva di un fiume. Ogni tanto si china, raccoglie da terra uno dei sassi. Lo esamina, lo soppesa e se sembra essere appena meno banale degli altri, lo infila pigramente nella tasca, potrebbe avere un futuro. Si sente estraniata dalla realtà, fuori da tutto, in verità è dentro una storia e scoprirà che questa storia è già stata disegnata.
In realtà, il filo seguendo il quale sono arrivata sulle rive del fiume Tama, nel suo tratto in cui attraversa un quartiere periferico di Tokyo, è passato attraverso le pagine di carta di un fumetto giapponese del 1986, “L’uomo senza talento” di Yoshiharu Tsuge, tradotto in italiano ed edito da Canicola nel 2017 (traduzione di Vincenzo Filosa) e letto dopo la stuzzicante ma casuale segnalazione di un amico.
In esso si parla infatti di suiseki, in un contesto in verità un po’ spiazzante e tutto da decifrare. L’uomo senza talento si chiama Susekan Sukegawa, ha una moglie e un figlio, ed è alla continua ricerca di una attività commerciale redditizia in cui cimentarsi per sbarcare il lunario e provvedere alla famiglia. In realtà, Sukegawa un talento ce lo aveva… pur essendo un promettente mangaka, lascia il lavoro e si dedica ad attività dove spera di trovare il successo economico con poca spesa e fatica, come vendere macchine fotografiche da lui riparate, oggetti di antiquariato, pietre sulle rive del fiume Tama, circondandosi di un piccolo universo di esclusi, che vivono di espedienti e di sogni come lui, fino alla conclusione quasi ineluttabile: un nullificarsi prospettato indirettamente, attraverso la lettura della storia e delle leggende legate al poeta eremita Inoue Seigetsu, il quale dopo aver regalato a piene mani bellissimi haiku a chi ne faceva richiesta morì dimenticato ed ignorato da tutti.
Ma il finale riserverà un’ulteriore svolta ironica a ribaltare l’apparente drammaticità della situazione: “Questo poeta e chi mi ha dato questo libro sono due completi idioti.”
Questa, in grandi linee, la trama. L’opera, in giapponese “Munō no hito”, è un watakushi manga, un “fumetto dell’io”, in cui parole e disegno si fondono per sondare le profondità dell’animo del proprio io narrante.
Come uno Shishōsetsu, un genere letterario appartenente alla letteratura giapponese che identifica un romanzo confessionale dove gli eventi nella storia raccontata corrispondono agli eventi della vita dell’autore, il fumetto è di chiara matrice autobiografica, risale al 1985 e fu pubblicato ad episodi sulla rivista trimestrale “COMIC baku”. Arriverà in Europa molti anni dopo: prima in Francia, poi in Spagna ed infine dopo trentadue anni anche in Italia, gli unici tre paesi fuori dal Giappone dove è stato tradotto e pubblicato.
Narrazione asciutta, condotta con poesia e durezza, un disegno che riduce il mondo ad un miscuglio di zone in luce e zone in ombra…
non posso negare che la prima lettura dell’opera non mi abbia regalato più domande che certezze. Attirata dalla presenza del suiseki, non mi aspettavo infatti di trovarli sì descritti con precisione, poesia e accuratezza e nel contempo riferiti a una attività negativa, a una perdita di tempo, a una umanità varia cialtrona e imbrogliona.
Per superare il disorientamento, ho dovuto studiare l’uomo, la sua vita, le sue opere, perché un watakushi manga è molto autobiografico, a cominciare dai luoghi disegnati, e perché l’autore sembra essere eloquente e nello stesso tempo criptico, reale e surreale. Molto infatti è stato scritto sull’opera e su Tsuge, e l’apparente semplicità della trama nasconde forse una molteplicità di livelli di lettura. Ogni aspetto possibile del fumetto sembra essere stato sviscerato dalla critica occidentale: dal buddismo zen al significato dell’arte, dal rapporto con la Natura al ruolo storico dei peti (si… avete letto bene…), dal significato dell’ozio nella efficientista società giapponese allo scontro/incontro tra le antiche filosofie orientali e l’occidentalizzazione del paese, fino a tirare in ballo il pessimismo cosmico.
Leggendo della vita di Tsuge, classe 1937, si capisce quanto le sue opere siano autobiografiche. La sua vita artistica è stata lunga e tortuosa, quanto le sue vicende esistenziali. Dopo un’infanzia di povertà e privazioni nel Giappone del dopoguerra, dopo i primi successi come mangaka già a partire dal 1954 ebbe continue crisi professionali ed esistenziali, incapace di adattarsi ad una vita lavorativa sempre più frenetica e legata a strettissimi tempi di consegna, al punto da affermare in un suo scritto: “non esiste al mondo cosa più paurosa delle scadenze”. Tre giorni prima della consegna, veniva sempre colto dagli stessi sintomi: mancanza di appetito, senso di disperazione e di rifiuto nei confronti di ogni cosa. “Il giorno della consegna – aggiunge Tsuge – ero completamente pazzo”. Pallido in viso, digiuno e senza aver dormito, Tsuge avvertiva dolori allo stomaco e si sentiva quasi prossimo alla morte. Al momento della consegna, continuava a sentirsi male sapendo di aver già accettato un altro lavoro. Questo stile di vita lo turbava e lo rendeva sempre più preda di ansie e paure. Così, dal 1972 al 1987, Tsuge decide di continuare a scrivere storie auto conclusive o in pochi episodi, realizzate però in tempi per lui più congeniali. Nel mentre, cercava di “vivere” alla giornata, viaggiando con la famiglia, ideando nuovi progetti di attività commerciali e, soprattutto, facendo i conti con le sue continue crisi esistenziali. Arriva comunque il commiato con i lettori, nel 1987, con un racconto dal titolo emblematico: Betsuri (Separazione), portando quindi a compimento quello “svanire” che gli era tanto caro, ritirandosi dall’industria del fumetto e dalla vita pubblica. Di lui oggi sappiamo che, al di là di alcune rare interviste, non appare in pubblico, vive da casalingo e dopo la morte della moglie si occupa del figlio. Nel quartiere in cui ha vissuto sulle rive del fiume Tama, che fa da sfondo ad alcuni capitoli de “L’uomo senza talento”, ancora ricordano questo fumettista così schivo da ritirarsi dal palcoscenico del mondo con un’opera in cui un fumettista schivo si ritira dal palcoscenico del mondo.
(Fine prima parte)
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