by Daniela Schifano | Mar 13, 2023 | In evidenza, Suiseki
Rozan seki
Catalogo JSE 2023 – Decima edizione
(c) Nippon Suiseki Association
Quest’anno, alleggeriti i divieti per entrare in Giappone, ho potuto partecipare di persona alla Japan Suiseki Exhibition, alla sua decima edizione. Nei miei due anni di assenza, l’amico Wil in Japan ci ha regalato il suo punto di vista sulla manifestazione, mentre quest’anno mi ha accompagnato personalmente tra le circa 150 pietre esposte.
La cerimonia di inaugurazione
Tokyo Metropolitan Art Museum
Nulla è cambiato nel protocollo ufficiale di apertura e le mascherine sono ancora obbligatorie al chiuso, anche per noi stranieri.
Un lungo e impegnativo percorso, iniziato nel 2014, allo scopo di portare la bellezza nel “tempio imperiale della bellezza”, il Tokyo Metropolitan Art Museum.
“È stata una sfida portare avanti l’esposizione di suiseki, compresa la qualità degli oggetti esposti, con 150 pietre esposte ogni volta, chiamando appassionati da tutto il Paese e da tutto il mondo.
Fortunatamente, dieci anni sono passati in un batter d’occhio grazie al sostegno di molti appassionati di suiseki che comprendono il nostro desiderio di “trasmettere la cultura del suiseki alle generazioni future“.
Primo tra questi è stato il bonseki “Kurokamiyama” che appartiene da lungo tempo al Tempio Kan-eiji di Ueno, di cui si diceva fosse “assolutamente impossibile ottenere il permesso di esporre”.
(Seiji Morimae)
Bonseki “Kurokamiyama”
Kan’eiji, Ueno
w. 47,5 x d. 34 x h. 14,5
(c) Nippon Suiseki Association
“In questi dieci anni, il museo ha potuto mostrare ai visitatori alcune pietre famose al fine di rappresentare la storia del suiseki nel Giappone stesso.
Per commemorare il 10° anniversario della mostra, abbiamo esposto ancora una pietra proveniente dal Tempio Kan-eiji, che ha un certificato di origine di Date Masamune, il signore feudale del Giappone. Inoltre, abbiamo deciso di presentare una sezione speciale con 17 pietre rappresentative di questi dieci anni, accuratamente selezionate tra le famose pietre che hanno adornato le dieci edizioni della “Japan Suiseki Exhibition”.
Questa edizione ha portato il numero totale di opere esposte a 1.600. Si tratta di un traguardo importante.”
(Seiji Morimae)
Milleeseicento suiseki… un numero che deve far riflettere. Quale il più importante? Quale il più rappresentativo? O il più ‘bello’? Domande inutili, dalla risposta impossibile, l’esperienza soggettiva del bello ci svierebbe dal vero obiettivo raggiunto: un punto di riferimento lungo il percorso incessante e ininterrotto della bellezza del suiseki. Dal passato ai giorni nostri verso il futuro, con 1600 ‘pietre miliari’ a segnare la strada.
Detto questo, una pietra può diventare simbolo di questo percorso di bellezza, un bonseki che fu esposto nella prima edizione, nel 2014, in cui non ero presente e in mostra anche quest’anno: Rozan seki ( 産山石 – Mt. Lushan ).
E’ facile riconoscere in questa pietra una figura umana placidamente seduta su una roccia ma cosa fa, guardando verso l’alto ? E perché il riferimento nel nome poetico alla famosa montagna cinese Lushan, la “migliore sotto i cieli”?
E’ una delle pietre più antiche e famose del Giappone, probabilmente cinese, portata in Giappone nel corso del 1600 dal monaco cinese Ingen Ryūki, fondatore della scuola Zen Ōbaku. Considerata un tesoro nazionale, pare essere appartenuta ai letterati Kimura Kenkado e al famoso Rai San’yō, filosofo, storico, artista e poeta giapponese vissuto dal 1780 al 1832.
Dal libro “Densho-seki” (Takaishi Teisuke – 1988)
Dal libro “Densho-seki” (“Pietre storiche”) pag.140
“In seguito, è stata trasmessa a letterati e artisti come Kimura Kenkado e Rai San’yō, che ammiravano la poesia del poeta Rihaku composta mentre osservava la cascata.
Questa pietra ha lo stesso aspetto anteriormente e posteriormente e si immagina il poeta Rihaku che recita una poesia guardando una cascata. [Rihaku 李白 è la pronuncia giapponese del nome cinese Li Bai ]
La pietra ha l’aspetto del poeta Li Bai che recita una poesia guardando una cascata.
La pietra è dura e solida. Il colore della pietra (una tonalità di pelle riccamente variegata di marrone liquido misto a giallo e bianco) funziona efficacemente per rappresentare l’atmosfera di un alto sacerdote che indulge nella poesia.”
Li Bai (701-762) è il famoso poeta cinese di epoca Tang, che ha composto la celeberrima ode “Guardando la cascata a Lushan” : è il Poeta giapponese quindi che guarda il Poeta cinese, immedesimandosi nel processo in una sua versione sublimata, atta a favorire la meditazione spirituale e il rimuginare poetico, davanti all’effigie pietrificata di un altro se stesso. Avrebbe potuto essere un saggio che ammirava la luna o la fioritura dei ciliegi, ma nulla avrebbe così definitivamente legato due esseri in una sensibilità trasversale alle culture e ai periodi storici.
Dal primo catalogo JSE: nel tokonoma
(c) Nippon Suiseki Association
Ognuno di noi può fermarsi a fianco dei due grandi pensatori, ognuno ha la sua cascata da osservare e la sua poesia da comporre.
by Daniela Schifano | Dic 23, 2022 | Librarsi
Con un asino al posto della renna, anche il Giappone ha il suo Babbo Natale, e il suo racconto di bontà e di buoni sentimenti, di attesa e di sorpresa. Da un libro pubblicato nel 1900, ecco Santa Kurō e la sua vera identità ( spoiler ! ).
Tra le montagne di un paese innevato del Nord, vive un bambino di otto anni, Mineichi Hayashi, e la sua famiglia, devota cristiana, trascorrendo le giornate osservando gli insegnamenti della Bibbia e pregando Dio.
“Mineichi è un ragazzino paffuto e grazioso, con occhi grandi e freddi, un viso bianco con un bellissimo e ineffabile splendore e capelli neri e lunghi che gli pendono senza sosta dal viso, facendolo sembrare saggio e svelto, cosa insolita in una famiglia di montagna. “
E’ notte, nevica abbondantemente, ma la famiglia, attorno al focolare, si gode serenità e tepore. D’un tratto il cane Buchi deposita un berretto ai piedi di Mineichi. Il papà capisce che qualcuno, là fuori, ha bisogno di aiuto e con una slitta padre e figlio, guidati dal cane Buchi, si precipitano nel buio della tempesta di neve.
Sul ciglio della strada quasi cancellata dalla neve scorgono un viaggiatore svenuto. Lo portano a casa e per scaldarlo la mamma getta nel camino una fascina di paglia dopo l’altra e dopo un momento di tensione in cui sembra che tutto sia perduto, il viaggiatore apre gli occhi, è vivo. Lentamente si riprende e si presenta.
Il viandante si chiama Iguchi Gohei, ha 50 anni ed è un contadino di un villaggio lontano.
Quando il viaggiatore chiede come potere ringraziare, il padre risponde.
“Se volete ringraziarci, dovete ringraziare Dio, perché per quanto ci impegniamo, non è possibile senza la volontà di Dio.”
“Dio?”
Il viaggiatore sembrava dubbioso.
“Sono Gohei Iguchi del villaggio di Hanai e nella mia casa adoro otto milioni di divinità, ma quale dio devo ringraziare?”
“Quale dio dobbiamo ringraziare? Che sia il dio del cielo.”
Il viaggiatore è sempre più confuso.
“Cosa c’è, allora, un dio diverso da quelli sull’altare?”
Mineichi rideva.
No”, disse con fermezza, “voglio che ringraziate l’unico Dio onnipotente del cielo, non chiedo altro. Va bene così”, disse con fermezza.
Il viaggiatore rispose: “Sì. ……”.
Il viaggiatore è comunque sempre più dubbioso e perplesso e teme che quegli “stranieri” avvelenino la sua anima. Dopo tre giorni, ripresosi completamente, ringrazia sentitamente e riprende la via di casa.
Trascorrono i mesi, giunge la primavera, la vita per la famiglia Hayashi procede splendidamente: papà sta coltivando i campi, mamma si prende cura dei bachi da seta e Mineichi è impegnato con la scuola. La vita prende una svolta improvvisa e tragica, però, quando il padre si ammala misteriosamente. Viene chiamato un medico, poi un pastore e poi un altro medico, ma le sue condizioni continuano a peggiorare. Le stagioni cambiano e finalmente, una notte, la salute del padre comincia a migliorare rapidamente e alla fine dell’autunno è quasi completamente guarito.
“È il mese di dicembre, vero?”
Disse, come se fosse tornato in sé solo ora.
“Sì, è così.”
La madre rispose senza riflettere.
“Il Natale è ormai alle porte.”
“Sì, sarà presto, e mi dispiace per Mineichi, non potrò comprargli nulla quest’anno.”
A causa della malattia, della preoccupazione e del trambusto degli ultimi mesi, nessuno ha potuto accudire i campi, nessuno li ha seminati e l’inverno è ormai alle porte senza che gli Hayashi abbiano immagazzinato il fabbisogno per i rigori dei mesi futuri. E tra l’altro quest’anno il piccolo Mineichi non potrà avere nemmeno il suo regalo di Natale.
“Oh, mio caro ragazzo. Quest’anno, a causa della mia malattia, non posso comprarti nulla per Natale.”
Mineichi rispose.
“Non ho bisogno di nulla, padre.”
Era la notte di Natale quando padre e figlio ebbero questa conversazione. Dopo che Mineichi si è addormentato, la famiglia riceve una visita. Si tratta di Gohei Iguchi, il viaggiatore a cui la famiglia aveva salvato la vita l’inverno precedente. Gohei è venuto a festeggiare il Natale con la famiglia, portando con sè molti regali. E, soprattutto, per Mineichi: c’erano vestiti e scarpe, aquiloni di carta e koma, racconti e libri illustrati.
La copertina illustrata della pubblicazione “Santa Kurō” – NDL Digital Collections
All’alba del 25 dicembre, Mineichi apre gli occhi e, con grande sorpresa, vede il letto circondato di regali. Cerca di svegliare la mamma, ma la donna è stravolta, provata dalle fatiche degli ultimi giorni. Ha più fortuna con il papà, che strabuzza gli occhi davanti a tanta abbondanza. Insieme leggono il biglietto che accompagna pacchi e pacchetti:
«Ti offro questi doni perché hai seguito gli insegnamenti di Dio e perché hai aiutato tuo papà a salvare la vita di quel viaggiatore. Ben fatto, ragazzo mio». Firmato 三 太九郎 ovvero «Santa Kurō, il vecchio delle province del Nord”.
Nel 1900 (Meji 33) Shindō Nobuyoshi pubblicò Santa Kurō, uno dei primi libri giapponesi a presentare Babbo Natale in un racconto dagli intenti educativi e morali. Scrive il portale Nippon.com che “la sua storia semplice e il forte tema cristiano contrastano nettamente con l’osservanza in gran parte secolare del Natale in Giappone oggi, offrendo uno sguardo affascinante sulle prime vedute della festa insieme alla vita rurale durante l’era Meiji (1868-1912).“
Dalla rivista per bambini Kodomo no tomo (1914)
Negli anni successivi, l’esistenza di Babbo Natale si diffuse tra i bambini giapponesi e nel 1914 (Taisho 3) il numero di dicembre della rivista per bambini Kodomo no Tomo pubblicava una immagine di Babbo Natale più ‘classica’ : un nonno dalla barba bianca, con abiti rossi, cappello rosso e una spessa cintura intorno alla vita, mente un bimbo lo spia dal suo letto mentre mette i doni sul focolare.
E chi non ha cercato di restare sveglio per vedere colui che porta doni ai bambini buoni ?
by Daniela Schifano | Ago 28, 2022 | Suiseki
Kamogawa ishi “Utsu no yama“
Questa bellissima pietra, molto antica, ha un nome poetico che mi ha incuriosito : “Utsu no yama” ( 宇津乃山 ) , ” Monte Utsu”. Misura ‘solo’ 14,5 cm in lunghezza, è una pietra del fiume Kamo e fu di proprietà del famoso collezionista Suifu Sanjin (1921 – 1994).
Il vero nome di Suifu Sanjin era Masashi Usui (薄井正志) ed era nato a Ibaraki. Prese il nome Suifu , l’antico nome della sua città natale, e Sanjin, che significa literati, quindi come riferimento ai letterati dell’antichità. Bonsaista e calligrafo, ha realizzato anche pregievoli vasi bonsai che a causa della produzione limitata hanno quotazioni molto alte. Realizzava a volte anche i daiza delle sue pietre e, come in questo caso, scriveva sul kiribako la storia e le sue impressioni sul suiseki.
Il kiribako di “Utsu no yama”
L’iscrizione non è antica, ma è dello stesso Suifu Sanjin. Identifica la pietra come una Kamogawa ishi e dice che in precedenza era di proprietà di Matsudaira Harusato, signore del feudo di Matsue, e famoso maestro del tè sotto il nome di Matsudaira Fumaiko (1751–1818).
Bene, se avessi il dono dei viaggi nel tempo correrei lì, per scoprire, se possibile, come e quando e da chi la pietra fu accostata al monte Utsu, forse in una cerimonia del tè ?
In effetti, esiste un monte Utsu, nella prefettura di Shizuoka, non molto alto ma con un valico difficile da fare a piedi, a quei tempi. E quello che ho scoperto va oltre la mera orografia giapponese: il monte Utsu è un meisho, un luogo che diventa famoso in quanto citato nella poesia e nei dipinti antichi, quindi deduco che una pietra esteticamente ‘superiore’ sia stata collegata a qualcosa di ancora più alto, nel campo artistico. Quando e perchè sia successo, non mi è possibile raccontarvelo, non lo so. Ma ben prima dell’anno 1000, il monte Utsu era stato teatro di uno degli episodi de ‘Ise monogatari‘- I racconti di Ise, una raccolta di poesie waka e narrativa, risalente al periodo Heian, di centoventicinque racconti di viaggio, che diventano l’occasione per la composizione e la declamazione di versi poetici. Non sono accertati nè la data esatta di composizione nè la paternità, ma nel Kokin Waka Shu sono presenti 30 poesie de ‘Ise monogatari’, tutte attribuite al poeta Ariwara no Narihira (825-880).
Nel capitolo 9 è presente un brano molto famoso che cita il monte Utsu. Vorrei procedere accompagnando i brani di narrativa e poesia ai tanti frammenti pittorici che hanno ‘raccontato’ questa storia nei secoli successivi.
“Tempo fa un uomo aveva l’impressione che restare nella capitale fosse diventato pericoloso e pensò di cercare una nuova abitazione nelle province orientali, verso cui si incamminò con un paio di vecchi amici. Poiché nessuno conosceva la strada, procedettero con esitazione, finché giunsero in un luogo chiamato Yatsuhashi.
Scesi da cavallo, si sedettero all’ombra di un albero, nei pressi di una palude, e fecero uno spuntino di riso bollito. Nei dintorni c’erano iris meravigliosamente fioriti. Osservandoli, uno del gruppo si rivolse all’uomo, esortandolo a comporre una poesia che avesse per tema ciò che provava in cuor suo: ogni strofa doveva iniziare con una sillaba del nome del fiore kakitsubata” ( Iris laevigata ).
Questa tecnica, chiamata oriku, era spesso usata come una sorta di gioco intellettuale fra poeti. Attenzione… HA può anche essere letto BA.
“Allora l’uomo recitò la poesia che dice:
Karakoromo
Kitsutsu narenishi
Tsuma shi Areba
Harubaru kinuru
Tabi o shi zo omou
“In terra lontana vaga il mio pensiero
rotto dal pianto per questo lungo viaggio.
Io ricordo la donna che nella capitale attende
simile a quest’abito cinese che da sempre m’accompagna.”
Nessuno riuscì a trattenere le lacrime che scesero abbondanti sul riso bollito.
Rimessisi in cammino, giunsero nella provincia di Suruga. Dopo aver raggiunto il monte Utsu, la strada si fece scura e stretta, circondata da una densa macchia di edera e aceri. Si sentivano ormai profondamente scoraggiati dalla dura esperienza alla quale si stavano sottoponendo, quando, d’improvviso, comparve loro dinanzi un monaco errante, il quale domandò dove stessero andando per una simile impervia via.
Osservatolo, l’uomo comprese che si trattava di un volto conosciuto in precedenza nella capitale, dove il monaco stava tornando.
Pensò allora di inviare un messaggio nella sua città e scrisse una lettera con una poesia d’amore, piena di desiderio, disperazione e tristezza, da consegnare alla donna amata.
“La via dell’edera attraverso il Monte Utsu (Utsu no hosomichi)” – 1815
Sakai Hōitsu (1761–1828)
Harvard Art Museums
Suruga naru
Utsu no yamabe no
utsutsu ni mo yume ni mo hito ni
awanu narikeri
“Presso il monte Utsu
nella provincia di Suruga
son giunto.
Non nella veglia e neppure in sogno
riesco ad incontrarti.”
Scritta la lettera, l’affidò al religioso e proseguì il suo viaggio verso Edo.“.
Scena dai Racconti di Ise: “Monte Utsu”
Fukae Roshū (1699-1757)
Metropolitan Museum of Art
Utsu è un gioco di parole sulla parola utsutsu, il cui significato letterale è “realtà” (quindi risveglio dal sogno) e anche “montagna di tristezza“, perchè non riuscire a vedere l’innamorata neanche in sogno significa che lei non lo sta pensando. Nell’antica tradizione giapponese, infatti, si riteneva che vedere il proprio amante in un sogno significava che entrambi pensavano intensamente all’amato.
I primi due versi servono a fornire un’indicazione indiretta del luogo in cui si trova il poeta e a introdurre ‘utsutsu‘ (“realtà”, “momento di veglia”) attraverso un’identità di suoni tra utsu e utsutsu.
Potrei continuare in questo percorso, tra “Le cinquantatré stazioni di posta del Tokaido” di Hiroshige e la sua visione del passo del monte Utsu, e “Lo stretto sentiero verso il profondo Nord” di Basho, che hanno, fra pittura e versi, il motivo del viaggio. Oppure parlarvi del dramma Nō “Kakitsubata” che ha come protagonista lo spirito dell’iris d’acqua (shite) che danzando racconta a un monaco errante la storia di Ariwara no Narihira e del suo amore per la principessa Takako.
E pensare che eravamo partiti da una piccola pietra che porta il nome di un monte sconosciuto.
by Daniela Schifano | Apr 18, 2022 | Suiseki
by Wil in Japan
“The 9th Japan Suiseki Exhibition”
(Posizionando il mouse sul testo si sovrappone la traduzione in italiano)
And so the fun just never seems to end. The Omicron wave was somewhat delayed in its wash over Japan, but come it did nonetheless, and just as planning for the Kokufu and suiseki exhibition was getting underway. Soft lockdown restrictions went back into place, borders were tightly sealed, and how museums would react remained unclear. Plans had to be put on hold… again.
While certain exhibitions were indeed canceled and many museums shifted to advanced-reservation, appointment-only admission policies, the Tokyo Metropolitan Art Museum kept its doors open to both the suiseki association, and the public at large. The uncertainty meant that publication of the catalogue was delayed, but in the end the show went on.
Having said that, the atmosphere of the exhibition was subdued, to say the least. While participation from abroad was consistent with years past, no visitors from outside of Japan were able to attend, and in fact very few from outside of Tokyo deigned venture into the big city either, lest they risk bringing the virus back to their local communities – a fair consideration. Attendance was accordingly low, but one hopes that those who visited did not leave disappointed.
The star of the show was an antique bonseki, never before seen in the suiseki world. It belongs to the Kohoan temple in Kyoto, which is a sub-temple of the Zen sect Daitokuji complex. Though the exact date is unclear, it has reportedly been housed there, unmolested and in its current manner, since the late 18th or early 19th century, after Matsudaira Fumaiko (1751–1818) displayed it in one of the temple’s tokonoma during a tea ceremony.
Its manner of display is not one we see in modern bonseki, though books on the subject from the Edo period illustrate the practice and multiple variations thereof. The stone is cut perfectly flat, and lacquered on the bottom so as not to scratch the delicate surface of the lacquer tray it is displayed in. Placed directly in the center, a perimeter of small white pebbles was then laid out around it in the so-called Moriyama technique.
The effect is one of visual isolation.
Placed in the black tray on its own, the color of the dark stone would blend in and its form would perhaps be partially lost, but the contrasting white field created by the pebbles around it brings the stone into focus, and draws our eyes directly to it. One should not interpret this in a literal fashion – it is not a mountaintop penetrating through a blanket of clouds – but a suggestion of purity, isolating and elevating the stone to a contemplative, conceptual plane. One would expect nothing less from a bonseki housed in such an important Zen temple.
In stark contrast was the modern Hosokawa school bonseki display nearby. There is little room for lofty interpretation here. Entitled “Mount Ontake”, meticulous brush and featherwork give life to the image of vast mountain range under a full moon in fine white sand, while in the foreground a group of colorful chrysanthemum stones adds a near-view, seasonal flourish. As sensitive and beautiful as it is, its concrete expression is remarkably different from that of the Kohoan bonseki.
“Mount Ontake” : modern Hosokawa school bonseki
While we are on the subject, readers of Japan Suiseki Exhibition catalogues will most likely have come across the word “bonsan” and wondered what on earth it meant.
How is it different from “bonseki”? Or “suiseki” for that matter?
While this is not the place to launch into an in-depth analysis of the words’ historical usage, it can be said with certainty that for a time they were used interchangeably and meant the same thing.
Specifically, “bonseki” means “tray stone” (盆石), and “bonsan” means “tray mountain” (盆山). And as the majority of bonseki were indeed mountain shaped, and for a time in history the two things were essentially one in the same. However, in the modern world of bonseki we also do occasionally see non-mountain stones, as witnessed in the previous Hosokawa school display that used pattern stones to give viewers a close up view of a field of flowers, offsetting the landscape in the distance.
We also see in bonseki that multiple stones can be used together in one display, and therein lays the difference.
The current definition and usage of the word “bonseki” is broad, and while it can refer to a single mountain-shaped stone displayed on its own, it can also include groupings of multiple stones that are not shaped like mountains. In contrast, in modern times “bonsan” only refers to mountain-shaped stones that are displayed on their own. Most often, they are single peaked, and asymmetrically balanced, though of course those are not definitional requirements so much as they are prevalent tendencies. In truth, the word “bonsan” is not used very often in this day and age, and if you looked hard enough you could most certainly find historical exceptions to the explanation offered above, but this is how people in the NSA use it today.
Back to the exhibition, this year featured a variety of material, including a few fairly unconventional displays that one does not often see in public exhibitions like this.
One was a tokonoma display of a Setagawa ishi in a suiban. If it raised the eyebrows of some, it may have opened the eyes of others.
Rather than the finely glazed and carefully shaped suiban we are used to seeing, this is a thick, wavy slab of Shigaraki stoneware, made by contemporary ceramicist Tsujimura Shiro. Sand is spread in a naturalistic manner in the center, and the stone, with its suggestion of a shallow lake on the top, is placed slightly off to the right.
Is it a boat stone?
Or a landscape stone?
The arguably too small ink painting of the moon overhead is in fact by the same artist, and could guide the viewer’s interpretation in either direction. Yesteryear’s orthodoxy may pass such an expression by without giving it due consideration, but those with more of an imagination would surely have found it inspiring.
While thinking in this more creative vein, let us consider two other unique displays.
One was a charming little Tamagawa ishi, named “Tale of the Toad” in reference to an old Japanese story.
Tamagawa ishi
“Tale of the Toad”
Hats off to the individual who saw the toad when they picked up the stone in the river, and kudos to the daiza carver who completed the picture. The kumihimo cord knotted in the shape of a turtle adds a bit of auspicious aquatic symbolism, and the decorative mat provides a framework. Suiseki does not have to be a brooding philosophical quest or high-minded poetic allusion ALL of the time, sometimes it can just be fun. The literary reference suggested here makes one want to read the story and learn more.
A small Kamogawa waterpool stone also demonstrated that there is more than one way of doing things.
Kamogawa ishi
“Chinza fuketsu”
The stone is named “Chinza fuketsu”, which is difficult to translate concisely, but means something along the lines of “enshrined cave from which cold wind blows”, suggesting a deep opening in the earth with untold mysteries in its depths.
The “enshrined” aspect of the name pulls it toward the Japanese Shinto tradition, and implies that the cave is sacred, and should be approached with reverence. The arrangement of small grey pebbles around the stone elevates its status by defining a sacred perimeter around it, creating a boundary between our world and the world of the kami that reside within. Unconventional though such an arrangement may seem, we must keep in mind that there could be a deeper meaning below the surface.
Having said that, from a more practical standpoint it could also be said that while the stone is in fact too small for the suiban, the pebbles enlarge the area it consumes, helping it to balance the space. One might even argue that the technique has an historical precedent of sorts, as witnessed in the Kohoan bonseki display previously discussed. Here, it accomplishes two things, one conceptual, one visual.
Two birds, one stone (and a handful of pebbles).
Of course, the vast majority of displays were more in line with what you would expect to find in a Japanese suiseki exhibition.
This Kanayama ishi from Hokkaido was simply named “Cape”, and presents us with a dramatic seaside promontory. Careful inspection reveals a tunnel passing through its center, and the fan-shaped painting of geese descending against a full moon identifies the season as autumn. One can almost feel the cool breeze blowing over the ocean.
Another autumn scene presents a very different picture. This well-known stone has been mistakenly published as an Ibigawa ishi in the past, when in fact it is a beni Kamogawa ishi, with an auburn coloration so deep it is almost unrecognizable. The stone’s soft, dull patina is incredibly old, and suits the subdued tenor of the season established by the painting. Use of the bright white suiban is certainly debatable, but surely the exhibitor had their reasons.
The special exhibition area this year focused on the collection of one Honde Kozaemon, who owns a number of important suiseki, including this wonderful Setagawa kin’nashiji ishi. This type of Setagawa stone is quite rare, and its beauty speaks for itself.
Setagawa kin’nashiji ishi
This well-known Mikura ishi from Shizuoka Prefecture shows beautifully on its thin daiza, and is one of the most recognized waterpool stones in Japan. Its center is deeply eroded, and resembling a tsukubai (type of stone washbasin found in Japanese gardens), it is the type of stone that would appeal to practitioners of the tea ceremony.
Mikura ishi
Waterpool stone
Ubusan seki like this are of a very dry looking, almost sandstone like material, which perfectly suits the atmosphere of a dilapidated hut stone like this.
Ubusan seki
Dilapidated hut stone
This doban display of a coastal Kamogawa ishi on a bamboo display stand is perfect for summer. Seeing it here in the cold month of February makes one anxious for warmer weather to come soon.
Despite the attendance and reserved atmosphere of the time, there were a number of inspiring entries this year, and we can only hope that peace prevails throughout the world in the months to come so that the 10th installment of the exhibition next year will be a great success, and a show to remember.
Credits.
Shakkei Group thanks a very special correspondent, who accompanied us on a virtual visit among the suiseki exhibited at the ninth edition of Japan Suiseki Exhibition, closed again to the presence of the Western world of enthusiasts, to whom we are giving the version in the original language, of this reportage, available in Italian also, in the Italiansuiseki website, at the page Di nuovo… Nonostante la pandemia
We are therefore deeply grateful to Wil, for helping us understand, with his explanations, what the stones do not always say.
Shakkei Group ringrazia un inviato molto speciale, che ci ha accompagnato in una visita virtuale tra i suiseki esposti alla nona edizione della Japan Suiseki Exhibition, di nuovo chiusa alla presenza del mondo occidentale degli appassionati, a cui stiamo regalando la versione in lingua originale, di questo reportage, disponibile anche in italiano, nel sito Italiansuiseki, alla pagina Di nuovo… Nonostante la pandemia
Siamo quindi profondamente riconoscenti a Wil, per averci aiutato a comprendere, con le sue spiegazioni, quello che le pietre non sempre dicono.
by Daniela Schifano | Gen 8, 2022 | Suiseki, Zuihitsu
«Il futuro non esiste nel futuro.
Nasce solo dalle nostre azioni nel presente» (Wangari Maathai)
«Possiamo iniziare il cambiamento proprio adesso» (Greta Thunberg)
Questi pensieri sparsi nascono da un suiseki: si chiama Kuon [ 久遠 ], che viene genericamente tradotto dal giapponese come “Eternità”, in inglese “Forever”. Come sempre mi accade, ho iniziato a dipanare un filo, studiando il significato del termine e senza accontentarmi di una traduzione letterale. Questo cercare a ritroso mi ha sempre svelato storie e significati che non conoscevo, dandomi l’opportunità di fermarmi a riflettere.
Iniziando la ricerca dall’etimologia di kuon 久遠, i due kanji separatamente significano “lungo tempo” e “distante”, attualmente usati con il significato di eternità anche in contesti ordinari, ad esempio come nome proprio maschile.
Liberamente, appunto. Cosa vuole dire veramente eternità ? Esiste qualcosa che esiste ‘per sempre’ ? Gli innamorati si giurano ‘amore eterno’, noi stessi non riusciamo a accettare l’idea della nostra morte. Non ci chiediamo con angoscia dove si era prima di nascere, ma sembra inaccettabile non esserci più.
“Si ha l’impressione che l’uomo moderno preferisce calarsi e perdersi solo nella trama di questa vita, dove nascita e morte è l’unico gioco di alfa ed omega, che segna il traguardo definitivo di ciò che è [….] ma c’è in ognuno una latente percezione di eternità; un brivido di infinito che nessuna siepe, di memoria leopardiana, riesce o può ostruire, essendo sempre vivo nel cuore il desiderio di non concludere il viaggio terreno come un qualsiasi fagotto.“
Quindi, anche se viviamo estraniati nell’oggi, ogni tanto cerchiamo il senso dell’eternità del nostro essere, del perdurare della nostra essenza e delle cose attorno a noi. E il divenire temporale è uno dei primi misteri da sciogliere, perché se il passato non esiste più e il futuro non è ancora arrivato cosa è l’eternità? Sembra infatti esistere solo il momento presente, che in un attimo fugge via.
Il pensiero filosofico occidentale ha dato le sue risposte, la scienza ha fatto del tempo una grandezza relativa, in Oriente il pensiero si fa pratica quotidiana.
Per Aristotele e Platone l’eternità è una successione cronologica illimitata, una sequenza di intervalli di tempo sia precedenti sia posteriori a un istante dato, ma non essendoci uno strumento in grado di misurarla essa si configura come una congettura, e fa parte del mondo della metafisica. Nietzsche invece la vede come una temporalità ciclica, una eterna ripetizione dello stesso attimo. Per Agostino, il tempo stesso ha avuto un inizio e solo Dio si trova in una condizione atemporale, a cui l’uomo potrà giungere solo dopo la morte. Sono solo accenni del grande lavoro speculativo realizzato dai pensatori nel corso dei secoli su questo argomento.
Nella dottrina buddhista si trova spesso il termine kuon, nel Sutra del Loto, il testo sacro buddhista, dove indica il tempo incommensurabilmente remoto, incalcolabile, in cui il Buddha arrivò all’illuminazione, e non un tempo ‘umano’ determinabile e databile (all’incirca 2600 anni fa, in India).
La figura storica di Nichiren Daishonin (1222-1282), monaco fondatore della omonima scuola buddhista giapponese forse più diffusa, ne analizzò il significato, dandone per l’epoca una interpretazione rivoluzionaria. Nella Raccolta degli insegnamenti orali Nichiren Daishonin afferma:
«Kuon [tempo senza inizio] significa qualcosa che non è stato forgiato, che non è stato migliorato, ma che esiste così come è sempre stato» (BS, 117, 54)
“Nel suo vero senso, il concetto di Kuon Ganjo [ 久遠元初 ] non significa solo il passato infinito; piuttosto indica un tempo senza inizio, un’eternità senza inizio né fine, oltre i confini del tempo. In questo senso l’eternità è la continuazione ininterrotta di un singolo momento. Quindi, il momento presente o qualsiasi momento contiene l’esistenza ultima in cui il passato senza inizio e il futuro infinito sono entrambi contenuti. Kuon Ganjo equivale quindi al momento presente”. {Fondamenti di Buddismo, P.79}
La dottrina si fa pratica: il momento presente ha un’importanza suprema. Non serve a niente soffermarsi sul passato. Sforzarsi al massimo nel presente e nutrire grandi speranze nel futuro è ciò che caratterizza una persona saggia. […]
Tutto comincia da ora. Il passato non esiste più e il futuro non è ancora arrivato. Tutto ciò che esiste è il momento presente. E in un lampo il presente diventa passato. Esiste e allo stesso tempo non esiste. È vuoto, o ku, lo stato di vacuità o non sostanzialità. In questo stato la vita continua, momento per momento, e non esiste al di fuori di questo momento.
Daisaku Ikeda (attuale presidente della Soka Gakkai International) elabora ulteriormente e illumina questo principio del buddismo di Nichiren:
“Nel buddismo di Nichiren Daishonin, tuttavia, Kuon – che è spesso interpretato come il passato infinito – in realtà non significa affatto il passato. Significa eternità, o l’aggregato di ogni singolo momento del tempo. Una volta che ti rendi conto che Kuon esiste in ogni momento, non è più corretto dire che si diventa un Buddha, ma che ci si risveglia al fatto di essere un Buddha per cominciare. “
Per cominciare. Oggi. Senza rinvii. Perché, anche senza essere buddhisti, il futuro che desideriamo sta tutto nel passo che compiamo ora.
Purtroppo non saprò mai quali flussi di pensiero seguì, nel darle il nome Kuon, colui che nel 1966 trovò questa pietra, così simile alla lacca nera. Forse semplicemente voleva affidarla, insieme a se stesso, all’eternità.
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