
Pietre tra le pagine di … Shōgun
(Murakami Kijo 1865-1938)
Harusame ya
Tashika ni mitaru
Ishi no sei.
Nella pioggerella primaverile
di certo, è uscito
lo spiritello della pietra.
Secondo il pensiero buddista, persino un elemento inanimato come la pietra ha il suo “genio“. Ma solo se bagnata la pietra risalta in tutta la sua scintillante lucentezza, così da sembrare viva. Ancora oggi, nei giardini giapponesi, dove le pietre hanno un ruolo decorativo essenziale, si usa bagnarle prima dell’arrivo di un’ospite, per rendere il giardino, anche se piccolo, più attraente.
Anche nella pratica del suiseki, uno dei piaceri maggiori consiste nel bagnare la pietra, godendo dell’osservazione del suo lento asciugarsi, delle variazioni di colore e profondità che assume man mano che l’acqua viene assorbita dalla pietra stessa.
Trovare alcuni passi sulle pietre nel romanzo “Shōgun“, ambientato nel Giappone del 1600, è stata un’inaspettata sorpresa. Tra pagine riempite di intrighi di palazzo, amori, odio, passioni violente, onore, dovere, tradimenti, fede cristiana e shintoista, kimono e katane, si aprono a sorpresa finestre in cui i personaggi escono temporaneamente dal mondo e dai suoi affanni, per imparare a “bere il cha da una tazza vuota“.
Le pietre crescono?
[Blackthorne] vide una pietra sul pavimento del bastione. La raccolse e la pose con cura nel sole, alla base di una feritoia, poi si appoggiò indietro, distese comodamente le gambe, e rimase a contemplarla.
I Grigi seguivano ogni suo movimento. Il capitano aggrottò la fronte, e dopo un po’ chiese: “Anjin-san, qual è il significato della pietra?”
“Ah! La guardo crescere.”
“Oh, scusate!” Il capitano aveva un tono veramente di scusa. “Capisco. Perdonate se vi ho disturbato.”
Blackthorne rise dentro di sé e tornò a contemplare la pietra. “Cresci, piccola bastarda!” mormorò. Ma per quanto imprecasse, ordinasse e pregasse, la pietra non cresceva. Ma ti aspetti veramente di veder crescere una pietra? si domandò. No, naturalmente, ma intanto il tempo passa e tu sei tranquillo. Non avrai mai abbastanza wa. Ne?”
Le pietre hanno un nome ?
E’ stata un’esperienza stupenda, pensava [Yabu-sama]. Non mi ero mai sentito così vicino alla natura, agli alberi, alle montagne, alla terra, all’insondabile tristezza della vita e della sua transitorietà. Gli urli avevano completato la perfezione di tutto il resto.
“Omi-san, nel mio giardino di Mishima c’è una pietra che ti prego di accettare in ricordo di questo avvenimento e della notte meravigliosa e della nostra buona fortuna. Te la manderò insieme al resto. Viene da Kyushu, io l’ho chiamata “La Pietra dell’Attesa” perchè quando la trovai stavamo aspettando che il Nobile Taiko ordinasse un attacco. E’ avvenuto, oh! quindici anni fa.[…] perchè non la metti qui, nel tuo giardino, e le cambi nome? Perchè non chiamarla “Pietra della Pace Barbara”, per ricordare questa notte e l’attesa senza fine della pace?”
“Mi permettete, forse di chiamarla la Pietra della Felicità per ricordare a me e ai miei discendenti gli onori che mi concedete, zio?”
“No. Meglio chiamarla semplicemente “Il Barbaro in Attesa”. Sì, mi piace. Ci unisce ancora di più, lui e me. Su un lato della roccia ci sono delle strane macchie che mi ricordano delle lacrime, e delle venature azzurre frammiste a un quarzo rossastro che mi ricordano la carne, la sua precarietà.
E’ bene per un uomo porre una pietra e darle un nome.
Il barbaro ci ha impiegato molto a morire. Forse rinascerà giapponese, come compenso alle sue sofferenze. Non sarebbe meraviglioso? E poi forse un giorno i suoi discendenti vedranno la pietra e saranno felici”.
Resteranno solo le pietre ?
…“Buntaro si tolse il chimono, depose le spade e cominciò a pulire: prima la minuscola sala, la cucina e la veranda. Poi il sentiero serpeggiante e le pietre incastrate tra il muschio e infine le rocce e il giardino. Strofinò e spazzò e lustrò finché tutto fu immacolato, lasciandosi pervadere dall’umiltà del lavoro manuale, che era l’inizio del cha-no-yu, poiché toccava soltanto a chi invitava rendere tutto impeccabile. La prima perfezione era la pulizia assoluta.
Al crepuscolo i suoi preparativi erano quasi terminati. Allora aveva fatto il bagno con cura, e poi aveva sopportato il pasto e il canto. Appena possibile, era corso a indossare abiti più scuri e si era affrettato in giardino. Aveva gettato acqua sulle pietre e sugli alberi, così che – disseminati com’erano di piccole luci – il giardino si era trasformato in un incanto di gocce iridescenti e danzanti nella brezza calda. Cambiò di posto a qualche lanterna e infine, soddisfatto, aprì il cancello e si recò nel vestibolo. I pezzi di carbone scelti meticolosamente e altrettanto meticolosamente disposti in piramide sull’arena bianca, bruciavano al modo giusto. Perfetti erano i fiori nel tokonoma. Pulì di nuovo gli utensili già lucenti. L’acqua nel bricco cominciò a bollire ed egli fu contento di udirne il suono reso più vivace dai pezzettini di ferro che aveva accuratamente disposto sul fondo.
Tutto era pronto. La prima perfezione del cha-no-yu consisteva nella pulizia, la seconda nella assoluta semplicità. L’ultima, e la più grande, nell’essere adeguato a un particolare ospite, o agli ospiti. Udì i passi di Mariko, poi la sentì sciacquarsi le mani nella fresca acqua di fiume della cisterna. Tre passi leggeri fino alla veranda. Altri due fino alla soglia riparata dalle tende. Perfino lei dovette curvarsi per passare dalla porta volutamente minuscola perché tutti si umiliassero attraversandola. Al cha-no-yu erano tutti pari, il più nobile dei daimyo e il più modesto dei samurai, e perfino un contadino, se fosse stato invitato.
Mariko osservò prima di tutto la disposizione dei fiori. Buntaro aveva scelto una sola rosa selvatica rossa e aveva deposto una sola goccia sulla foglia, posandola su pietre rosse. Con il fiore egli diceva: l’autunno sta per venire, non piangere su questo tempo, il tempo della morte, in cui la terra sprofonda nel sonno; godi il tempo del nuovo principio e prova la gloriosa freschezza dell’aria autunnale in questa sera d’estate…
presto la lacrima svanirà e così la rosa, soltanto le pietre resteranno… presto tu ed io svaniremo e soltanto le pietre resteranno.
Osservò Mariko, distaccato da se stesso, sprofondato in quella sorta di trance che a volte aveva la fortuna di godere chi offriva il cha, in completa armonia con quanto lo circondava. Mariko si inchinò al fiore in segno di omaggio e venne ad inginocchiarsi di fronte a lui. Indossava un kimono marrone scuro, con un filo d’oro lungo gli orli che metteva in rilievo il candore del collo e del viso. L’obi verde scurissimo armonizzava con il sottabito. I capelli erano acconciati semplicemente e senza ornamenti.
“Sei la benvenuta” disse Buntaro dando inizio al rito.”
Gli autori.

Murakami Kijo (1865-17 settembre 1938) nacque come Shotaro Murakami a Edo nel 1865. Si trasferì nella città di Takasaki nel 1873. Murakami ha studiato haiku con Masaoka Shiki e ha contribuito a pubblicare la prima edizione di Hotogisu, una famosa rivista haiku. Pubblicò la sua collezione di lavori nel 1917. Da giovane aveva studiato legge, ma divenne sordo a causa di una malattia e dovette rinunciare ai suoi studi. Nel 1894 lavorò come scriba legale a Takasaki. Nel 1927 perse i suoi beni e la sua casa a causa di un incendio.

L’autore di Shogun James Clavell è nato in Australia nel 1924 ed è morto in Svizzera nel 1994. Durante la Seconda guerra mondiale è stato prigioniero a Singapore ed è giunto poi negli Stati Uniti dove ha lavorato come sceneggiatore e regista. Scrittore di fama internazionale, i suoi libri sono stati best seller tradotti in tutto il mondo. Famosa la sua trilogia ambientata nell’Oriente del passato: Shōgun, Gai-jin e Tai-Pan.
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