Sekikazari di Paco Donato: Pino nero “Villetta Barrea” (Italia), shikishi di Prunus (a firma di Ryuzen Murai), shitakusa con bambù
In Giappone il fiore di pruno diventa molto popolare in epoca Edo, ma precedentemente in epoca Heian (VIII-XII sec.) era motivo ben apprezzato tra i nobili di corte, essendo una pianta importata dalla Cina, dove era ritenuto simbolo della vita umana; infatti riuscendo a fiorire anche al gelo, assunse significato di forza che vince contro le avversità.
Inoltre, dall’epoca Heian in poi, il fiore di pruno viene associato anche all’ideale della conoscenza secondo la testimonianza di una poesia, forse apocrifa, che collega il fiore allo studioso Sugawara no Michizane (845-903), statista politico, studioso e poeta di corte vissuto tra il IX-X secolo nel racconto del suo esilio.
Quando soffierà il vento dell’est affidagli il tuo profumo o fiore di susino che ho lasciato nella capitale anche se non hai più il tuo padrone non ti dimenticare della primavera. (Sugawara no Michizane – 901)
A settant’anni dalla morte, Sugawara no Michizane fu deificato come Tenjin-sama, kamiprotettore delle lettere e della calligrafia. E così una leggenda narra che questi fiori sboccino rigogliosi solo nelle epoche in cui la scienza e gli studi prosperano.
Successivamente, in epoca Edo (XVII-XIX sec.) il fiore di pruno si legò spesso al motivo del pino e del bambù, simboli dell’inverno con funzione augurale, motivo artistico-simbolico che prende il nome di “I tre amici dell’inverno“.
Essi rappresentano longevità, perseveranza e resilienza, spesso presenti nell’arte cinese e nelle altre culture da essa influenzata. In Giappone vengono indicati come Shō Chiku Bai (松竹梅), e sono associati all’inizio del nuovo anno per la loro resistenza alle rigide temperature e per il significato loro attribuito di augurio per il nuovo anno.
Pino – lunga vita Bambù – resilienza e flessibilità Ume – coraggio e rinascita
I suiseki dal disegno alla realtà. Dopo i quattro passi nel fumetto “L’uomo senza talento”, alla ricerca del mondo di Tsuge e delle pietre del fiume Tama.
Una conclusione inevitabile.
Detto tutto questo, forse anche troppo, dal leggere il fumetto ad avere un motivo in più per recarmi sul fiume Tama il passo è stato breve e determinato. Prima della mia partenza del 2018, ho contattato una interprete turistica giapponese che ha vissuto in Italia, che propone itinerari a Tokyo accompagnando personalmente i turisti. Spiegai ad EriIsshiki Inayoshi, questo il suo nome, che ero una appassionata di suiseki (“non conosco, mi puoi spiegare cosa sono?”) e che avendo letto il fumetto di Tsuge sarei voluta andare sul fiume Tama, sempre che fosse possibile e che i luoghi descritti non fossero di pura fantasia. I giapponesi sono fantastici, nella loro efficienza, ed immediatamente mi ha indicato il sito ufficiale dedicato ai luoghi di Tsuge, non solo de ”L’uomo senza talento” ma anche di altre opere dell’artista (http://tsugesanpo.sakura.ne.jp).
Il capitolo 6 del sito è dedicato al fiume Tama ed al quartiere di periferia in cui l’artista ha vissuto, dal 1978 al 1993: foto e pagine del fumetto sono messi a confronto, subito si capisce che il fumettista ha disegnato, forse crudamente, proprio il suo ambiente, in modo molto realistico e vivido. Quando poi ho passeggiato per le strade del quartiere, mi sono sentita all’interno del fumetto, tra le grandi torri di approvvigionamento idrico ed i palazzi squadrati numerati.
Sull’autobus, una anziana signora sentendo parlare una lingua straniera si è incuriosita ed alle spiegazioni di Eri (“è venuta dall’Italia per vedere dove viveva Tsuge” … un po’ esagerato) si è meravigliata, poi entusiasmata e indicandoci il palazzo dove viveva l’artista ci ha raccontato di averlo conosciuto personalmente. Adesso Tsuge ha 81 anni, vive a Katsushika, ed è sempre persona molto schiva e riservata.
Poi, finalmente il fiume: un lungo viale di alberi di ciliegio con una pista ciclabile costeggia i margini, fiancheggiati da piccoli orti e campi sportivi. Dagli argini poi è molto facile scendere sulle ampie rive coperte di sassi, un vero paradiso pieno di possibilità da scoprire.
Il fiume in febbraio scorre lento e tranquillo, non è periodo di piena, la vegetazione è bassa e stentata, quindi ci sono le condizioni migliori per vedere bene le pietre. Risale al settembre del 1974 l’ultima devastante alluvione a Tokyo, che ruppe l’argine per oltre 260 metri, facendo precipitare diciannove abitazioni nel flusso torbido. Il Tama scorre nel Kanto per 138 km, ha tre affluenti importanti (Asakawa, Akikawa e Okuri), il suo corso è fermato dalla diga Ogōchi, che crea il lago Okutama, da cui il corso d’acqua esce prendendo il nome Tama. Continua a fluire tra le alture in direzione est ed entra nel Parco Nazionale Chichibu Tama Kai, per poi attraversare Tokyo fino alla sua foce nella omonima baia.
Sicuramente non è questa la zona da cui provengono le mie tre pietre barca, mi hanno infatti detto che è il corso superiore del Tama quello in cui si raccolgono le pietre migliori, soprattutto quelle provenienti dall’affluente Okuri. Sul fiume, lì dove campeggiava l’uomo senza talento, ho trovato comunque qualche buona pietra, inutile a far soldi, forse, come dice Sukegawa. Queste le due pietre che ho portato a casa nel 2018, come un ricordo prezioso (daiza realizzati da Giorgio Rosati).
Quello che raccontai in Italia della mia esperienza sul Tama fece entusiasti proseliti e nel febbraio 2019 un nutrito gruppo di occidentali si è unito a me ed a Eri, che ha organizzato tutto in modo impeccabile: un minivan ci è venuto a prendere all’albergo e ci ha portato di nuovo nel quartiere di Tsuge. Eravamo in sette: cinque italiani, Yvonne Graubek dalla Danimarca e Paul Gilbert dagli Stati Uniti. Ognuno di noi ha trovato quello che cercava: il fiume è ricco di molte tipologie di pietre, addirittura ce ne sono alcune con la famosa pelle di pera tipica delle più famose pietre del fiume Seta. L’intera giornata è stata dedicata alla ricerca, con pausa pranzo in un delizioso ristorante tipico nella zona. Purtroppo, incombe sempre lo spettro delle valigie e del peso, quindi è necessario regolarsi, ma è stata una raccolta soddisfacente, in quantità e qualità. Nessuno ha la pretesa che in una sola giornata si possa trovare il meiseki, il capolavoro della propria collezione, ma molti cercatori di pietre trovano la massima soddisfazione nel poter dire di aver trovato la propria pietra e di averla in seguito valorizzata e portata in mostra. Ecco di seguito qualcuna delle pietre raccolte.
Yvonne Graubek – Roccia costiera (W22 x D14 x H7 cm)
Yvonne Graubek – Nozomy (W14.2 x D8.5 x H 8cm)
Daniela Schifano – Toyama ishi (W23 cm -Daiza di Giorgio Rosati)
Lorenzo Sonzini – Toyama ishi (W15 cm – Daiza di Giorgio Rosati)
Laura Monni – Pietra disegnata (Daiza di Giorgio Rosati)
Patine diverse, forme diverse, pietre disegnate, ruvide, morbide, nere, marroni, rosse. A parte il caso che ci porta a poggiare gli occhi su una pietra fra le tante, ognuno vedrà e sceglierà quelle che lo riguardano nel profondo.
Personalmente, in queste situazioni non voglio una pietra, mi godo il tempo del cercarla.
Seguendo quindi quel sottile filo che si è dipanato dalle pagine di carta di un fumetto, sono arrivata al fiume di Tsuge, o meglio al fiume di un uomo senza talento, ma ormai posso non concordare con la sua affermazione “Le pietre del Tama non compaiono in nessun libro. Non so quanto valgono. È strano, ma non ne ho mai vista una nei negozi specializzati ai grandi magazzini. Sono come me… non le nota nessuno”.
Mi spiace smentirti, con questi esempi importanti di pietre del Tama appartenenti ai soci del club Tamagawa Ishikai. Caro amico, per alcuni collezionisti giapponesi le pietre del fiume Tama sono “le migliori”, perché al nero più puro si aggiunge quella che chiamano “la ruggine”, dovuto al fatto che pur essendo pietre di fiume e non di montagna esse vengono da una sorte di fango paludoso che a volte, quando si secca, va tolto con gli opportuni strumenti.
Quelle più apprezzate sembrano essere quelle raccolte nell’affluente Okuri, nelle quali la ruggine prende un tono più rossastro. Questa ruggine dà profondità e peso alla pietra, che tra l’altro a volte risuona quando è colpita.
E sono così apprezzate da essere esposte anche alla Japan Suiseki Exhibition di Tokyo, come ad esempio questa pietra chiamata “Tenjin”, deificazione shintoista di Sugawara no Michizane (845-903), calligrafo, poeta e uomo politico del periodo Heian.
Tenjin
La leggenda narra che quando fu obbligato all’esilio a Daizafu, egli piangesse per dover abbandonare il suo albero di pruno e le sue meravigliose fioriture. La pianta allora lo seguì, volando fino a Daizafu in una sola notte.
Da dovunque provengano, a prescindere dal loro mero valore economico, “le pietre hanno vissuto con la natura per centinaia di milioni di anni e hanno tracciato diverse storie. Ricordando queste pietre, ascoltandole e parlando con loro, cerchiamo spazio nel cuore.”
Gli amici di febbraio 2019. Da sinistra Lorenzo Sonzini, Daniela Schifano, Yvonne Graubek, Paul Gilbert, Cosimo Loparco, Elena Sonzini, Laura Monni
E qui mi fermo… per ora.
Siamo, spero insieme, arrivati alla conclusione di questo lungo racconto, che riguarda me, il fiume Tama, i suiseki, un mangaka giapponese ed il suo alter-ego di fantasia.
Questo articolo, pubblicato in due parti sulla rivista U.B.I. riservata ai Soci, si ferma a febbraio 2019, ma in realtà il fiume ha continuato a scorrere, le pietre a rotolare ed io ci sono tornata anche nel febbraio del 2020.
Nell’ottobre 2019 il tifone Hagibis ha causato la rottura degli argini del Tama a Tokyo, anche se non ci sono state le pesanti distruzioni del 1974: io guardavo le immagini in TV, mi messaggiavo con Eri, riconoscendo i ponti e il paesaggio urbano del quartiere di Tsuge.
E a febbraio 2020 mi sono resa conto in prima persona della portata della piena, che ha distrutto quegli orticelli che si snodavano lungo il fiume, spezzato alberi, portato banchi di sabbia dove c’era vita.
Ma tutto passa, come il fiume. Ho trovato altre pietre interessanti, i miei amici qualcuna superlativa, ma so già, con costernazione, che il prossimo febbraio non potrò rinnovare l’esperienza. L’epidemia di Covid ci ferma, ci blocca, ci separa, il Giappone è, nei fatti, irraggiungibile.
“Languido autunno ai bordi della laguna“ Lagerstroemia indica, Miscanthus sinensis, Hosta ‘One Man’s Treasure’, Polypodium vulgare, Anemone hupehensis. Ikebana di Silvana SuiyōMattei
Una radura nel bosco illuminata dal sole che filtra tra le foglie degli alberi, il vento algido che scuote e piega gli steli delle erbe quando tutto intorno è gelo e bruma, la forza vitale ed esuberante della vegetazione che rinasce dopo il riposo invernale. Vedute e atmosfere che viviamo quando ci immergiamo in uno scenario naturale e che l’ikebana Ohara ha saputo raccontare in una forma compositiva, lo Shakei Moribana, che rappresenta, più di tante altre, il suo approccio a quest’arte.
L’introduzione di questo nuovo stile d’ikebana nasce e si radica nell’osservazione attenta della natura, delle sue forme, dei suoi ritmi e costituisce un momento di grande innovazione nel mondo piuttosto statico dell’ikebana di fine ‘800. Esso non vede più i vegetali come meri elementi strutturali da collocare all’interno di schemi compositivi che hanno come fine il raggiungimento di un’armonia fortemente artefatta ma li inserisce in contesti che rispecchiano e riflettono un ideale estetico profondamente diverso, ispirato alla natura.
(Foto di Amelie Soffietti, video di Marco Di Marco)
Renzoku-ike. Moribana Paesaggio in continuità “Come l’acqua che scorre. Dalla foresta sino a lambire i margini del ruscello” Ikebana di Silvana SuiyōMattei In questo grande ikebana da esposizione ogni suiban (vaso basso) è una composizione a sé stante che assume un nuovo significato se collegata a tutte le altre.
Lo Shakei Moribana Shizen-hon-i (Moribana Paesaggio Realistico) della scuola Ohara è un qualcosa di unico nel mondo dell’ikebana. In pochissime altre scuole, tra cui la scuola Chiko, vengono talvolta realizzate delle composizioni dove si ravvisano delle similitudini.
Possiamo dire che esso rappresenta il manifesto della scuola Ohara e ne è una delle espressioni più caratteristiche.
Dobbiamo al primo Caposcuola Unshin Ohara (1861-1916) e al suo intuito creativo la genesi di questo nuovo criterio compositivo basato sul dialogo con una natura che ispira e suggerisce.
Si narra che le sue lunghe passeggiate nell’area montana di Takarazuka (Prefettura di Himeji) abbiano fortemente influenzato il suo modo di percepire l’ikebana e lo abbiano portato ad esplorare nuove forme espressive che si sono poi concretizzate nel Moribana . Emblematico, a questo riguardo, il modo in cui consigliava ai suoi allievi di avvicinarsi a questo nuovo tipo di ikebana, affermando che: “ un buon Moribana non si fa usando la testa ma usando i piedi”.
Inizialmente venne molto semplicemente chiamato Shizen Moribana (Moribana Natura) e anticipò di poco la nascita di quello che sarà poi chiamato nella scuola Ohara Shikisai Moribana (Moribana Colore). 1
Tratto dal libro “Selected flower arrangements of the Ohara School” by Koun Ohara (Yamanaka & Co. 1934)
Il termine Shakei significa replicare (dal verbo 写すutsusu: rappresentare, copiare) una scena e non deve essere confuso con il termine Shakkeiche dà il nome a questo blog.
Costituisce un’espressione artistica ma veritiera, simbolo del legame profondo, tra questa forma d’arte e la natura. E’ l’equilibrato punto d’incontro tra immaginazione e realtà, tra soggettività e oggettività in cui si estrinseca il concetto di kyojitsu tobun e cioè finzione (kyo) e realtà (jitsu) in egual misura (tobun).
Kyo è l’immaginazione, la suggestione che si ottiene facendo ricorso a tecniche compositive come la “piegatura” di erbe e vegetali per evocare il vento o come la potatura per “esagerare” la bellezza di un ramo. Jitsu è la realtà che nel paesaggio significa rispettare (e pertanto conoscere) i portamenti naturali dei vegetali inserendoli in contesti a loro congeniali o che sembrino tali.
Un importante requisito per avvicinarsi correttamente a questa complessa forma d’ikebana è di avere una buona conoscenza botanica. Solo questa ci può consentire di creare una composizione che, pur rappresentando uno scenario immaginario, grazie ad un sapiente accostamento di essenze vegetali, appare agli occhi di chi la guarda come esperienza reale e vissuta.
Nello Shakei Moribana Shizen-hon-i la visione prospettica è, di preferenza, quella ravvicinata. Questo accade perché quando lo creiamo, evochiamo un ambiente naturale che siamo in grado di ricreare solamente perché immaginiamo di esserne parte. Siamo immersi in quel tipo di paesaggio. Siamo sul bordo del lago, nel cuore di un bosco, sulle dune che costeggiano il mare. Noi vedremo e mostreremo la natura così come la si percepisce quando si è fortemente coinvolti.
Fino a qualche anno fa non vi erano prescrizioni stilistiche e strutturali a guidarci nella creazione di uno Shakei Moribana Shizen-hon-i. Si considerava sufficiente raccomandare di seguire tre principi generali:
rispettare il portamento naturale delle essenze vegetali usate;
raffigurare un certo ambiente naturale (montagna, bordo d’acqua ecc. scegliendo essenze in coerenza con quel tipo di habitat vegetale
desiderando rappresentare una stagione o un passaggio stagionale, introdurre elementi che possano mettere in evidenza questa percezione.
Attualmente, invece, vi sono degli schemi compositivi a guidare l’allievo che per la prima volta affronta lo studio di questa forma d’ikebana. Lo aiutano a impostare una composizione che veicola immediatamente la sensazione di essere al cospetto di uno scenario naturale pur mantenendo grande libertà di espressione e lasciando ampio spazio all’immaginario personale.
Diverso l’approccio a un’altra, altrettanto importante, forma di rappresentazione di un paesaggio nella Scuola Ohara: lo Shakei Moribana Yoshiki-hon-i, conosciuto nella lingua italiana come “Moribana Paesaggio Metodo Tradizionale”. Quest’ultima è una forma compositiva fortemente strutturata che è stata codificata dettagliatamente nel corso della storia della scuola e della quale vi parlerò in un prossimo articolo.
Viene spontaneo collegare lo Shakei Moribana Shizen-hon-i con la fotografia o con la pittura paesaggistica. Come un fotografo o un pittore anche noi ricorriamo a delle illusioni per creare un’atmosfera ma a differenza di un dipinto o di una foto le nostre composizioni hanno una dimensione prospettica diversa: la forza evocativa data dalla tridimensionalità. E questo le rende uniche.
Paesaggio tropicale. Ikebana di Silvana Suiyō Mattei
Unico è anche il messaggio che si cela in queste composizioni, un messaggio di avvicinamento al fascino, talvolta nascosto, della natura. Rispettandone tempi e modi riesce a comunicare e a trasmettere l’idea di una bellezza sussurrata e non appariscente: uno scrigno che si apre agli occhi di chi le osserva.
1 E’ Unshin Ohara, fondatore della scuola Ohara, che alla fine del 1800 crea il Moribana ( lett. fiori ammassati) presentandolo ufficialmente in una mostra tenutasi nel 1897. Questo forma compositiva sarà in seguito ripresa da molte altre scuole di ikebana e costituirà la base di quello che rappresenterà l’ikebana moderno.
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