Finestre di luce nei boschi

Finestre di luce nei boschi

Personale di Shoko Okumura, a Milano dal 8 al 31 ottobre 2020

Comunicato stampa


Luce e tenebra si escludono, si oppongono e si contrappongono da sempre nelle narrazioni mitiche, religiose e filosofiche, come due forze o principi in lotta: da questa dicotomia sono nate numerose similitudini, metafore e simboli che inducono l’uomo a riflettere su sé stesso e sull’altro da sé, ovvero sul mondo.

La luce: un aprirsi del mondo, nato dal caos (che vuol dire anche tenebra) per giungere al cosmo, alla chiarezza, a quell’ordine e quella armonia che è anche chiarezza della e nella mente che lo concepisce.
Ma l’essere umano non può sopportare troppa luce, e troppo a lungo, senza accecarsi: lo spiegò molto bene Platone nel mito della caverna, e poi molti altri dopo di lui.

Dunque l’esistere dell’uomo, il suo balzare fuori dalle tenebre verso la luce, al momento della nascita, è spesso accompagnato dal pianto: la disperazione per qualcosa di irrimediabilmente perduto per sempre. La vita extra uterina è poi un complicato connubio tra piena luce e tenebra profonda. È luce che tocca l’ombra e ombra che ripara dalla troppa luce. L’essere umano non è mai nulla di assoluto e pieno: sta in mezzo tra luce e tenebra, ed è egli stesso un’ombra che si staglia nella luce.
Nella pittura di Shoko la luce non è mai piena, perché accecherebbe. E’ piuttosto annunciata, intraveduta come dalla finestra di una dimora, ove si coltivano e proteggono gli affetti umani; è anche l’invito a percorrere un cammino che dal buio volge verso una luminosità attesa – una sorta di rivelazione, un “chiaro” nel bosco – ma mai pienamente raggiunta. Forse per questo nella lingua latina la parola bosco si dice “lucus a non lucendo”. Un bosco è un’assenza di luce, ma non completa, perché il bosco, pur nelle sue ombre, si rischiara a tratti.

I dipinti di Shoko si trovano dunque in perenne oscillazione tra occultazione e disvelamento delle forme, e il loro linguaggio culturale si polarizza tra atmosfere tipicamente giapponesi e dettagli descrittivi a volte derivati dalla tradizione figurativa occidentale.



Shoko Okumura nasce a Chiba, in Giappone, nel 1983. Si laurea in Pittura Tradizionale Giapponese alla Tokyo University of the Arts nel 2008.
Subito dopo la laurea si trasferisce in Italia per studiare restauro, specializzandosi nella tecnica dell’affresco presso l’Università internazionale dell’Arte di Firenze. Durante questi studi approfondisce la conoscenza delle caratteristiche tipiche dei pigmenti italiani, iniziando una sperimentazione che unisce la tecnica della pittura giapponese con la tradizione figurativa occidentale.
La sua arte si prefigge come scopo principale quello di rappresentare la relazione esistente fra natura e uomo.
Attualmente vive e lavora a Milano.
Principali esperienze espositive: 2020 Mostra personale “Universo fluttuante” presso galleria Vision Quest 4Rossi, Genova 2020 Mostra collettiva “Bino-yokan”presso Takashimaya Art Gallery, giro di 6 gallerie in Giappone 2019 Mostra personale “Trasparenze crepuscolari” presso Centro di cultura giapponese, Milano 2019 Mostra bipersonale “Seifu-meigetsu” presso Takashimaya Shinjuku Art Gallery,Tokyo 2019 Mostra Finalisti di Arteamcup presso Villa Nobel,Sanremo 2019 Mostra collettiva “Stati d’Arte” presso Villa Fidelia, Spello 2018 Mostra personale “Natura sussurrata” presso galleria Corte degli Artisti, Milano 2018 Mostra collettiva “Ko-kin” Libri d’artista presso galleria Nobili, Milano 2018 Mostra collettiva “S’io m’intuassi, come tu t’immii”, presso MostraMi, Fabbrica del vapore, Milano 2018 Mostra collettiva “Arte giapponese” presso Villa Lante, Roma 2017 Mostra personale “Natura sussurrata” presso galleria Frammenti d’Arte, Roma 2017 Mostra personale “Natura sussurrata” presso Studio Arti Floreali, Roma 2017 Mostra collettiva “Eterne stagione” presso Palazzo Monferrato, Alessandria 2017 Mostra collettiva “Arte Migrante” presso Torre Viscontea, Lecco 2016 Mostra collettiva “Domani” presso Museo Nazionale di Tokyo, Giappone 2016 Mostra collettiva presso galleria “Spazio D”, Lecco 2016 Mostra collettiva “Kimigayo” presso MABIC, Maranello (MO) 2015 Mostra personale “Essenza della natura” – Arte Giappone gallery, Milano 2015 Mostra collettiva “Esopo” – Avantgarde Tattoo and Art gallery, Sesto San Giovanni


8 – 31 ottobre 2020
Da martedì a sabato h. 16 -19
INGRESSO LIBERO
INAUGURAZIONE: nelle giornate 8 – 9 e 10 ottobre, con apertura h. 17.00 – 20.30, la visita sarà arricchita dalla presenza dell’artista e dalla lettura di testi poetici che hanno ispirato le opere esposte. Per queste date, ingresso libero con PRENOTAZIONE attraverso il sito www.manifiestoblanco.com

MANIFIESTO BLANCO
via Benedetto Marcello 46, Milano
info@manifiestoblanco.com | mobile: 3895693638 | www.manifiestoblanco.com

L’Inafferrabile

L’Inafferrabile

… Misterioso, Poetico:
L’Universo in un piccolo spazio.

Trasformare il mondo in un giardino e il giardino in un mondo. Il giardino è immagine e metafora del vivere in armonia per disporsi a una relazione, che va ripensata, fra uomini, animali e natura” (Massimo Venturi Ferriolo)

Interpretare e comprendere il giardino giapponese come studio del rapporto Paesaggio – Natura – Universo, permette in ogni luogo e tempo di essere identificato come realizzazione di un unico obiettivo: dare vita al mondo ideato.

Ciò diviene possibile attraverso cinque “stratagemmi“ con i quali il giardino si realizza e dà vita ai seguenti movimenti: Ricevere, Espandere, Rievocare, Concentrare e Trasformare.

Questi, come scriverà Sachimine Masui nel libro “San Sen Sou Moku” sono ricollegabili a cinque espedienti, che fanno del giardino giapponese “specchio dell’universo” :

Ospitalità

Attraversamento

Riproduzione

Riduzione

Astrazione

Possiamo definire pertanto il giardino giapponese come uno spazio in continuità con l’ambiente circostante. Uno spazio dove pur non conoscendone gli aspetti architettonici e filosofici, intuitivamente è come se riscoprissimo una sacralità di fondo, che ci coinvolge e ci calma, invitandoci a passeggiare lungo i suoi viali e a contemplare le varie forme che si dipanano sotto i nostri occhi.

Alla sua base un atteggiamento ricettivo ed interattivo nei confronti del mondo naturale, che porterà a soluzioni armoniche basate sul principio dell’Asimmetria.

Dai versi al pennello

Dai versi al pennello

“Mio piccolo cacciatore di libellule, oggi chissà fin dove ti sei spinto.”

Abstract.

Analisi di un haiku famoso effettuato da un calligrafo prima di riprodurlo su un kakejiku, comparando alcune accreditate traduzioni in inglese non completamente rispondenti.

L’haiku di Fukuda Chiyo-ni.

Esistono molte traduzioni, in inglese e in italiano, dell’ haiku scritto da Fukuda Chiyo-ni (Kaga no Chiyo) (福田 千代尼; 1703 – 1775), in cui la poetessa fa riferimento al figlioletto morto, pare a soli cinque anni. E’ un compito difficile, quello di tradurre un haiku, al fine di mantenere quel qualcosa che è già intangibile nei versi originali, per sua natura poetica.

Ogiwara Seisensui (1884–1976):
Ciascun haiku è come un cerchio: metà è frutto del lavoro dello haijin, chiudere il cerchio è però compito del lettore”.

Di conseguenza, anche il calligrafo affronta difficoltà analoghe, perché haiku o frasi Zen molto conosciute spesso sono riprodotte nelle calligrafie e montate sui kakejiku per la cerimonia del tè.

Mrs. Eri Takase, insignita nel 1989 del grado di shihan (Maestro) dai Bokuteki-kai e Bunka-shodo, dice del suo lavoro: “Creare una calligrafia è un’impresa e normalmente inizia con la selezione della poesia e dei materiali. Riguardo al testo poetico, ho bisogno di capire completamente la poesia, per aiutare il design e per scegliere il carattere. Mentre preparo l’inchiostro, immagino il lavoro, in modo che ogni sua parte sia chiara nella mia mente, perché non c’è passato, né futuro, solo il momento e il pennello che danza sulla carta.” Seguiamo quindi il percorso analitico del master Eri Takase, secondo la quale :

“Le tante traduzioni di questo haiku tendono ad essere troppo letterali o troppo distaccate. Le ultime due righe sono un’unica frase, composta da parole che potresti immaginare borbottate da qualsiasi madre tra sé e sé, migliaia di volte: “Mi chiedo dove sia andato oggi?” Penso che questo sia importante da preservare nella traduzione e che sia essenziale per la bellezza della poesia.
Chiyo-ni deve aver provato centinaia di volte, quando suo figlio era vivo, quella semplice preoccupazione materna che il suo bambino fosse fuori da qualche parte, non sapendo esattamente dove, a caccia di libellule. In effetti, la poesia si ferma con la semplice espressione di preoccupazione su dove potrebbe essere andato. Ciò che non viene detto è il momento dopo, quando la realtà punge. Secondo me, Chiyo-ni dipinge due cose: la prima è l’ovvio orgoglio e la serietà che il suo ragazzo provava per la caccia alle libellule e la seconda è la preoccupazione che provava finché non fosse tornato a casa al sicuro.
Il resto, l’istante successivo, va immaginato, perché non detto: quando la madre si rende conto che tutto questo è sparito per sempre.”


tombo tsuri
kyou wa doko made
itta yara



蜻蛉釣り
今日はどこまで
行ったやら



Mio piccolo cacciatore di libellule
oggi
chissà fin dove ti sei spinto…


Il commento di Irene Iarocci, autore della traduzione in italiano: “Il velato dolore di una madre privata dell’unico figlioletto trova lirica espressione nella semplicità elevata di così pochi accenti“.

Traduzioni a confronto.

Chi non conosce il giapponese, partirà dalla traduzione dell’haiku nella propria lingua, che potrebbe fornire il cerchio già chiuso dallo stesso traduttore.

Altri esempi illustri, di traduttori in lingua inglese.


Cacciatore di libellule,
Quanto lontano sei andato oggi
Nel tuo vagabondare?
(Daniel Buchanan)



A caccia di libellule! … chissà dove è adesso?

(Lafcadio Hearn)



Mi chiedo in quali campi oggi
Insegue libellule in gioco,
Il mio bambino – che è scappato.
(Curtis H. Page)


Così Daniel Buchanan commenta la sua traduzione: “Questa poesia è stata composta dopo la morte del suo piccolo figlio, il suo unico figlio, che amava cacciare le libellule. Sebbene non sia descritto direttamente, il dolore della madre è espresso in modo meraviglioso e intenso.
Lafcadio Hearn, d’altra parte, prende una direzione diversa ipotizzando che Chiyo-ni sappia che suo figlio è morto e stia pensando a suo figlio nell’aldilà e scrive: “Il verso ha lo scopo di suggerire, non di esprimere, l’emozione della madre. Vede i bambini che corrono dietro alle libellule e pensa al suo ragazzo morto che si univa al gioco – e così si ritrova a chiedersi, in presenza del Mistero infinito, che fine ha fatto la piccola anima. Dov’è andato? – in quale gioco oscuro trova ora gioia?
La versione di Curtis H. Page ha forse un’intensità aggiuntiva nell’utilizzo della parola “scappato“: la sensazione che la madre non riesca a pronunciare la parola “morto”. Ma manca l’effetto del “quanto lontano” nell’originale – il suggerimento di “quanto lontano è andato nel suo viaggio nell’aldilà?” – un viaggio ritenuto molto difficile per i bambini a meno che non avessero la protezione di Jizo Bosatsu, il loro tutore speciale.

Le conclusioni del calligrafo.

Osserva Eri Takase: “In questa poesia Chiyojo è una madre, non un filosofo“, suggerendo quindi un piano di lettura più semplice. Come calligrafo, sceglie di dipingere utilizzando l’hiragana per la libellula (tonbo) e il corsivo per gli altri versi, essendo una poesia molto femminile e uno stile più adatto a trasmettere emozioni.

蜻蛉釣り
今日はどこまで
行ったやら
  1. 蜻蛉 釣 り (tonbo tsuri) – composto da 蜻蛉 (tonbo) che significa “libellula” e 釣 り (tsuri) che significa “pesca”. Quindi il termine significa letteralmente “pesca alla libellula”. Oggi usiamo l’espressione “tonbo tori” per catturare libellule con una rete. Ma, quando questa poesia è stata scritta, si usava un filo di seta e il procedimento era molto più simile alla pesca – quindi è stato usato “tsuri” piuttosto che “tori“.
  2. 今日 (kyou) – significa “oggi; in questo giorno”
  3. は (wa) – scritto come “ha” ma si legge come “wa“. Significa “oggi” come argomento
  4. ど こ ま で (dokomade) – “quanto lontano”
  5. 行 っ た (itta) – passato del verbo 行 く (iku) che significa “andare”
  6. や ら (yara) – yara è una particella che denota incertezza. Penso che la traduzione di “Mi chiedo” si adatti bene a questo.

Infine “mio piccolo” non è nell’originale giapponese. Chiyojo sta parlando del suo bambino e questo sentimento si adatta alla poesia. Una traduzione più diretta sarebbe:

cacciatore di libellule
mi chiedo dove egli sia
oggi

Interpretazioni, quindi.


Al lettore il compito di chiudere il cerchio, il proprio.
Forse Chiyo-ni non aveva un figlioletto, perso in tenera età. O forse sì, non è questo l’importante, quale madre non ha tremato in attesa del rientro del figlio? L’haiku ha una valenza universale e toccante,  la libellula un mezzo per veicolare l’autunno, tempo del ricordo e del rimpianto, contrapposto ad un gioco infantile e gioioso. Chissà.



La donna senza talento

La donna senza talento

I suiseki in un fumetto giapponese – Seconda parte
Quattro passi nel fumetto “L’uomo senza talento”.

Recensire un titolo così importante è una operazione per la quale non ho la preparazione, né le competenze necessarie. In punta di piedi, vi proporrò alcuni stralci del fumetto, per entrare nelle atmosfere descritte e tentare un’analisi dei tanti temi proposti, sperando comunque di suscitare la vostra curiosità verso una lettura completa.

Dei sei episodi del fumetto, il primo “Vendo pietre” e l’ultimo, “Svanire”, sono ambientati nel presente, mentre i quattro centrali sono dei flash-back sul passato che chiariscono progressivamente il percorso del protagonista, da mangaka di successo a uomo ‘inutile’, o anche ‘senza ruolo’, per la sua famiglia e per la società.

L’immagine superiore, che introduce il primo capitolo, è una perfetta riproduzione di quella che definiamo ‘pietra cascata’ o taki-ishi: il flusso d’acqua nasce sottile, poi si ingrossa e scende irruento fino a toccare la base del profondo daiza, il supporto in legno. Un bell’inizio, perché tutto è come deve essere, segno che il suiseki non è una presenza occasionale o malamente descritta. In cima, l’uomo come tenpai, osserva ed accompagna.



Non sapevo più cosa altro fare.
Così adesso vendo pietre.”

Questo è l’incipit del primo capitolo, come l’immagine di copertina tratta dal film del 1991.
Vendere pietre su un letto di pietre: sembra attività alquanto aleatoria, sia agli occhi dei casuali passanti, sia agli occhi del figlioletto e della moglie di Sukegawa. Ma egli spiega che la sua collezione è stata accuratamente selezionata, in tanti anni di studio e di passeggiate solitarie sul fiume. A livello teorico Sukegawa si pone come un araldo di una tradizione orientale, dall’altra parte è palese la futilità del suo impegno. Vendere sassi raccolti sul fiume Tama, considerato dagli esperti povero di tesori, su una riva piena delle medesime pietre, sembrerebbe mostrare una nitida volontà di oziare.

I quattro capitoli centrali del fumetto, ambientati nel passato e che descrivono semplici episodi di vita di tutti i giorni e i ricordi dei tempi passati, hanno come denominatore comune il senso di perdita dei valori giapponesi tradizionali, a cui forse lo stesso Tsuge è incapace di rinunciare: il suiseki e l’amore per la Natura, l’interesse per l’allevamento di specie di uccelli autoctoni, l’attaccamento ad alcune mode post-belliche come quella della fotografia vintage, l’incontro con un monaco Komuso, un “monaco del nulla”, che vive mendicando e suonando un flauto, a cui la moglie lo paragona nel suo essere “un uomo senza talento e senza scopo”, quindi incompatibile con le dinamiche capitaliste importate.

Nell’ultimo capitolo, “Svanire”, il racconto ritorna al presente. Sukegawa riceve in regalo un libro e in esso scopre la parabola di un poeta errante veramente esistito, Inoue Seigetsu, (1822-1887) detto Yanagi-no-ya, grande erudito e maestro calligrafo. Dalla fine del regime Tokugawa agli inizi dell’era Meiji, il poeta vagò da un villaggio all’altro nella valle del fiume Ina, nella provincia di Nagano, per quasi trent’anni. Scrisse 1800 haiku, grazie ai padroni di casa che gli davano riparo, copertura e sakè in questi anni di vagabondaggio. Morirà come un escremento, un rifiuto, con l’ultimo haiku di morte sulle labbra:

Nessuno dei protagonisti descritti riesce a vivere pienamente nella società umana, tranne forse i venditori di pietre del secondo capitolo e le figure femminili, in perenne contrasto con le figure maschili, ombre che altro non aspettano se non di svanire. Il cercatore di uccelli sceglierà il suicidio, il poeta vagabondo di vivere allo stato selvatico, Sukegawa di scendere nella scala sociale, da mangaka a uomo inutile. A Tsuge, e a Sukegawa, entrambi incapaci di compiere una scelta radicale (il meditato suicidio, l’incapacità di lasciare la moglie e di andare a mendicare), non resta che ammettere la propria solitudine nell’universo, la perdita di ogni radice e lasciarsi svanire nel nulla, uno svanire nell’oblio come un oggetto inanimato fra gli altri. Un modus vivendi per sottrazione, che diventa un atto di resistenza e di amor proprio.

Resta l’ultima frase del fumetto: “… sono due completi idioti”, a rovesciare ogni possibile deriva pietosa con pungente autoironia. Forse una lucida premonizione?

Non posso non proporre una riflessione su due fenomeni sociali molto diffusi nel Giappone moderno, che sembrano rispondere alla ‘sottrazione’ di Tsuge: hikikomori, ritirarsi, jōhatsu, evaporare, risposta di molti giovani ed anziani ad un ritmo troppo competitivo e frenetico della società.

L’hikikomori, fenomeno giovanile, consiste nel chiudersi in casa, molto spesso nella propria camera, rifiutando qualsiasi contatto con il mondo esterno che non sia mediato dall’uso di un cellulare o di un computer.

Destino analogo è quello vissuto dai jōhatsu: in genere uomini, che hanno in comune l’aver perso il lavoro o l’essere sommersi dai debiti, per non subire la vergogna di doversi dichiarare falliti, spariscono dalla società, suicidandosi o andando a popolare le baraccopoli che in Giappone sorgono spesso lungo i canali delle città.

Torno al fumetto. Ho trovato curiosa anche la rappresentazione del rapporto tra Sukegawa e la moglie: la libertà che si prende nell’insultare il marito, ricordandogli a più riprese il suo status di rifiuto della società incapace di accumulare profitti, stona completamente con il rispetto sacrale dovuto al capofamiglia nel patriarcato nipponico atavico… un altro valore tradizionale perduto?

L’essenza delle cose.


Nel terzo capitolo “Il signore degli uccelli”, si racconta dell’incontro di Sukegawa con un altro bottegaio poco realizzato, come lui, un venditore di uccelli, che ha il negozio sempre vuoto, sia di pennuti di valore sia di clienti. Le loro vite sembrano avere molti parallelismi, a cominciare dal rapporto con le rispettive mogli, che li disprezzano per non riuscire a provvedere ai loro bisogni, anche siano una gonna o paio di mutande.

La differenza sostanziale tra le entità moglie-marito viene sottolineata brutalmente: mentre i due uomini discutono pomposamente sullo scomparire delle peculiarità della tradizione giapponese causato dall’occidentalizzazione, la discussione viene interrotta da una sonora flautolenza della moglie del venditore di uccelli.

Cosa dire… per quanto si possa dedicare la vita alla ricerca di un senso o di un non-senso, è la realtà con tutte le sue istanze e bassezze che in ultimo ha la precedenza. Ma non solo: un sonoro peto può fermare e ridicolizzare i predicatori del niente impegnati in uno sproloquio sui massimi sistemi e come un koan portare all’illuminazione. E’ come un vento che spazza via l’indesiderato: la satira a base di peti è stata spesso usata per criticare cambiamenti sociali e politici.

Una delle scene tratte dalla pergamena “He-Gassen” (屁合戦), ovvero: “La battaglia delle scoregge” (Periodo Edo)

Il capitolo prosegue con la condivisione tra i due di un’altra vecchia storia, che riguarda un ‘maestro cacciatore di uccelli’, capace di attirarli solo fischiando, e dei tempi gloriosi in cui tutto sembrava avere un significato. Ma anche in questo caso la moglie li interrompe: ”Passate tutto il tempo a parlare dell’essenza delle cose.. ma che senso ha quello che fate voi?

Riflessioni sul valore dell’ozio.


Anche Yamai, l’amico proprietario di una libreria, non fa altro che dormire tutto il giorno. «Perché fai così?», chiede Sukegawa. E Yamai risponde: «Chissà, forse a ispirarmi sei stato proprio tu… […] Vendere pietre raccolte nei dintorni… sai bene che non le comprerà nessuno. E se non le vendi, in fondo è come se non facessi niente. Non credi che sia un po’ come dormire?». «Se non sei utile, la gente ti considera un rifiuto. In fondo, essere inutili è come non esistere

Quindi, se nessuno è interessato al tuo lavoro, tu non esisti: una riflessione molto amara, che potrebbe aver portato all’azione/non-azione l’autore Tsuge, che decide con quest’opera di non aggiungere altro, di abbandonare il campo. Ecco una delle chiavi di lettura del libro: l’oziare contrapposto a quella modernità che, figlia del capitalismo, non tollera più la figura “eversiva” del pigro o di chi non è all’altezza di produrre.

In Giappone l’uomo morale era colui che si ritirava in meditazione, ma anche in Oriente il pigro non è mai stato accettato socialmente e dedicarsi profondamente al proprio lavoro è la base della moralità. Il concetto di ozio, in una società capitalistica come il Giappone nei periodi Showa o Meiji, ha quindi in sé un carattere fortemente sovversivo: piuttosto che pensare alla società, al capitale, l’ozioso preferisce starsene appartato, a non far nulla.

Ma nel lasciare “le cose come sono” si può anche trovare un collegamento al concetto di giapponese di Natura, Shizen, che significa “essere così come si è da sé stessi”; nella pratica buddhista, una delle strade per trovare l’illuminazione consiste nell’imparare dalla natura, accettarla e accettare noi stessi e le cose come sono. Ecco forse che la presenza del suiseki non è poi così casuale, e la chiave di lettura che vede Tsuge come un praticante dello Zen non è così astrusa.

(Fine seconda parte)

La donna senza talento

La donna senza talento

I suiseki in un fumetto giapponesePrima parte

La donna percorre la riva di un fiume. Ogni tanto si china, raccoglie da terra uno dei sassi. Lo esamina, lo soppesa e se sembra essere appena meno banale degli altri, lo infila pigramente nella tasca, potrebbe avere un futuro. Si sente estraniata dalla realtà, fuori da tutto, in verità è dentro una storia e scoprirà che questa storia è già stata disegnata.

In realtà, il filo seguendo il quale sono arrivata sulle rive del fiume Tama, nel suo tratto in cui attraversa un quartiere periferico di Tokyo, è passato attraverso le pagine di carta di un fumetto giapponese del 1986, “L’uomo senza talento” di Yoshiharu Tsuge, tradotto in italiano ed edito da Canicola nel 2017 (traduzione di Vincenzo Filosa) e letto dopo la stuzzicante ma casuale segnalazione di un amico.

La copertina della edizione italiana

In esso si parla infatti di suiseki, in un contesto in verità un po’ spiazzante e tutto da decifrare. L’uomo senza talento si chiama Susekan Sukegawa, ha una moglie e un figlio, ed è alla continua ricerca di una attività commerciale redditizia in cui cimentarsi per sbarcare il lunario e provvedere alla famiglia. In realtà, Sukegawa un talento ce lo aveva… pur essendo un promettente mangaka, lascia il lavoro e si dedica ad attività dove spera di trovare il successo economico con poca spesa e fatica, come vendere macchine fotografiche da lui riparate, oggetti di antiquariato, pietre sulle rive del fiume Tama, circondandosi di un piccolo universo di esclusi, che vivono di espedienti e di sogni come lui, fino alla conclusione quasi ineluttabile: un nullificarsi prospettato indirettamente, attraverso la lettura della storia e delle leggende legate al poeta eremita Inoue Seigetsu, il quale dopo aver regalato a piene mani bellissimi haiku a chi ne faceva richiesta morì dimenticato ed ignorato da tutti.

Ma il finale riserverà un’ulteriore svolta ironica a ribaltare l’apparente drammaticità della situazione: “Questo poeta e chi mi ha dato questo libro sono due completi idioti.

Questa, in grandi linee, la trama. L’opera, in giapponese “Munō no hito”, è un watakushi manga, un “fumetto dell’io”, in cui parole e disegno si fondono per sondare le profondità dell’animo del proprio io narrante.
Come uno Shishōsetsu, un genere letterario appartenente alla letteratura giapponese che identifica un romanzo confessionale dove gli eventi nella storia raccontata corrispondono agli eventi della vita dell’autore, il fumetto è di chiara matrice autobiografica, risale al 1985 e fu pubblicato ad episodi sulla rivista trimestrale “COMIC baku”. Arriverà in Europa molti anni dopo: prima in Francia, poi in Spagna ed infine dopo trentadue anni anche in Italia, gli unici tre paesi fuori dal Giappone dove è stato tradotto e pubblicato.

Narrazione asciutta, condotta con poesia e durezza, un disegno che riduce il mondo ad un miscuglio di zone in luce e zone in ombra…

non posso negare che la prima lettura dell’opera non mi abbia regalato più domande che certezze. Attirata dalla presenza del suiseki, non mi aspettavo infatti di trovarli sì descritti con precisione, poesia e accuratezza e nel contempo riferiti a una attività negativa, a una perdita di tempo, a una umanità varia cialtrona e imbrogliona.

Per superare il disorientamento, ho dovuto studiare l’uomo, la sua vita, le sue opere, perché un watakushi manga è molto autobiografico, a cominciare dai luoghi disegnati, e perché l’autore sembra essere eloquente e nello stesso tempo criptico, reale e surreale. Molto infatti è stato scritto sull’opera e su Tsuge, e l’apparente semplicità della trama nasconde forse una molteplicità di livelli di lettura. Ogni aspetto possibile del fumetto sembra essere stato sviscerato dalla critica occidentale: dal buddismo zen al significato dell’arte, dal rapporto con la Natura al ruolo storico dei peti (si… avete letto bene…), dal significato dell’ozio nella efficientista società giapponese allo scontro/incontro tra le antiche filosofie orientali e l’occidentalizzazione del paese, fino a tirare in ballo il pessimismo cosmico.

Leggendo della vita di Tsuge, classe 1937, si capisce quanto le sue opere siano autobiografiche. La sua vita artistica è stata lunga e tortuosa, quanto le sue vicende esistenziali. Dopo un’infanzia di povertà e privazioni nel Giappone del dopoguerra, dopo i primi successi come mangaka già a partire dal 1954 ebbe continue crisi professionali ed esistenziali, incapace di adattarsi ad una vita lavorativa sempre più frenetica e legata a strettissimi tempi di consegna, al punto da affermare in un suo scritto: “non esiste al mondo cosa più paurosa delle scadenze”. Tre giorni prima della consegna, veniva sempre colto dagli stessi sintomi: mancanza di appetito, senso di disperazione e di rifiuto nei confronti di ogni cosa. “Il giorno della consegna – aggiunge Tsuge – ero completamente pazzo”. Pallido in viso, digiuno e senza aver dormito, Tsuge avvertiva dolori allo stomaco e si sentiva quasi prossimo alla morte. Al momento della consegna, continuava a sentirsi male sapendo di aver già accettato un altro lavoro. Questo stile di vita lo turbava e lo rendeva sempre più preda di ansie e paure. Così, dal 1972 al 1987, Tsuge decide di continuare a scrivere storie auto conclusive o in pochi episodi, realizzate però in tempi per lui più congeniali. Nel mentre, cercava di “vivere” alla giornata, viaggiando con la famiglia, ideando nuovi progetti di attività commerciali e, soprattutto, facendo i conti con le sue continue crisi esistenziali. Arriva comunque il commiato con i lettori, nel 1987, con un racconto dal titolo emblematico: Betsuri (Separazione), portando quindi a compimento quello “svanire” che gli era tanto caro, ritirandosi dall’industria del fumetto e dalla vita pubblica. Di lui oggi sappiamo che, al di là di alcune rare interviste, non appare in pubblico, vive da casalingo e dopo la morte della moglie si occupa del figlio. Nel quartiere in cui ha vissuto sulle rive del fiume Tama, che fa da sfondo ad alcuni capitoli de “L’uomo senza talento”, ancora ricordano questo fumettista così schivo da ritirarsi dal palcoscenico del mondo con un’opera in cui un fumettista schivo si ritira dal palcoscenico del mondo.

(Fine prima parte)

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