I suiseki in un fumetto giapponese – Seconda parte
Quattro passi nel fumetto “L’uomo senza talento”.
Recensire un titolo così importante è una operazione per la quale non ho la preparazione, né le competenze necessarie. In punta di piedi, vi proporrò alcuni stralci del fumetto, per entrare nelle atmosfere descritte e tentare un’analisi dei tanti temi proposti, sperando comunque di suscitare la vostra curiosità verso una lettura completa.
Dei sei episodi del fumetto, il primo “Vendo pietre” e l’ultimo, “Svanire”, sono ambientati nel presente, mentre i quattro centrali sono dei flash-back sul passato che chiariscono progressivamente il percorso del protagonista, da mangaka di successo a uomo ‘inutile’, o anche ‘senza ruolo’, per la sua famiglia e per la società.
L’immagine superiore, che introduce il primo capitolo, è una perfetta riproduzione di quella che definiamo ‘pietra cascata’ o taki-ishi: il flusso d’acqua nasce sottile, poi si ingrossa e scende irruento fino a toccare la base del profondo daiza, il supporto in legno. Un bell’inizio, perché tutto è come deve essere, segno che il suiseki non è una presenza occasionale o malamente descritta. In cima, l’uomo come tenpai, osserva ed accompagna.
“
“Non sapevo più cosa altro fare.
Così adesso vendo pietre.”
Questo è l’incipit del primo capitolo, come l’immagine di copertina tratta dal film del 1991.
Vendere pietre su un letto di pietre: sembra attività alquanto aleatoria, sia agli occhi dei casuali passanti, sia agli occhi del figlioletto e della moglie di Sukegawa. Ma egli spiega che la sua collezione è stata accuratamente selezionata, in tanti anni di studio e di passeggiate solitarie sul fiume. A livello teorico Sukegawa si pone come un araldo di una tradizione orientale, dall’altra parte è palese la futilità del suo impegno. Vendere sassi raccolti sul fiume Tama, considerato dagli esperti povero di tesori, su una riva piena delle medesime pietre, sembrerebbe mostrare una nitida volontà di oziare.
I quattro capitoli centrali del fumetto, ambientati nel passato e che descrivono semplici episodi di vita di tutti i giorni e i ricordi dei tempi passati, hanno come denominatore comune il senso di perdita dei valori giapponesi tradizionali, a cui forse lo stesso Tsuge è incapace di rinunciare: il suiseki e l’amore per la Natura, l’interesse per l’allevamento di specie di uccelli autoctoni, l’attaccamento ad alcune mode post-belliche come quella della fotografia vintage, l’incontro con un monaco Komuso, un “monaco del nulla”, che vive mendicando e suonando un flauto, a cui la moglie lo paragona nel suo essere “un uomo senza talento e senza scopo”, quindi incompatibile con le dinamiche capitaliste importate.
Nell’ultimo capitolo, “Svanire”, il racconto ritorna al presente. Sukegawa riceve in regalo un libro e in esso scopre la parabola di un poeta errante veramente esistito, Inoue Seigetsu, (1822-1887) detto Yanagi-no-ya, grande erudito e maestro calligrafo. Dalla fine del regime Tokugawa agli inizi dell’era Meiji, il poeta vagò da un villaggio all’altro nella valle del fiume Ina, nella provincia di Nagano, per quasi trent’anni. Scrisse 1800 haiku, grazie ai padroni di casa che gli davano riparo, copertura e sakè in questi anni di vagabondaggio. Morirà come un escremento, un rifiuto, con l’ultimo haiku di morte sulle labbra:
Nessuno dei protagonisti descritti riesce a vivere pienamente nella società umana, tranne forse i venditori di pietre del secondo capitolo e le figure femminili, in perenne contrasto con le figure maschili, ombre che altro non aspettano se non di svanire. Il cercatore di uccelli sceglierà il suicidio, il poeta vagabondo di vivere allo stato selvatico, Sukegawa di scendere nella scala sociale, da mangaka a uomo inutile. A Tsuge, e a Sukegawa, entrambi incapaci di compiere una scelta radicale (il meditato suicidio, l’incapacità di lasciare la moglie e di andare a mendicare), non resta che ammettere la propria solitudine nell’universo, la perdita di ogni radice e lasciarsi svanire nel nulla, uno svanire nell’oblio come un oggetto inanimato fra gli altri. Un modus vivendi per sottrazione, che diventa un atto di resistenza e di amor proprio.
Resta l’ultima frase del fumetto: “… sono due completi idioti”, a rovesciare ogni possibile deriva pietosa con pungente autoironia. Forse una lucida premonizione?
Non posso non proporre una riflessione su due fenomeni sociali molto diffusi nel Giappone moderno, che sembrano rispondere alla ‘sottrazione’ di Tsuge: hikikomori, ritirarsi, jōhatsu, evaporare, risposta di molti giovani ed anziani ad un ritmo troppo competitivo e frenetico della società.
L’hikikomori, fenomeno giovanile, consiste nel chiudersi in casa, molto spesso nella propria camera, rifiutando qualsiasi contatto con il mondo esterno che non sia mediato dall’uso di un cellulare o di un computer.
Destino analogo è quello vissuto dai jōhatsu: in genere uomini, che hanno in comune l’aver perso il lavoro o l’essere sommersi dai debiti, per non subire la vergogna di doversi dichiarare falliti, spariscono dalla società, suicidandosi o andando a popolare le baraccopoli che in Giappone sorgono spesso lungo i canali delle città.
Torno al fumetto. Ho trovato curiosa anche la rappresentazione del rapporto tra Sukegawa e la moglie: la libertà che si prende nell’insultare il marito, ricordandogli a più riprese il suo status di rifiuto della società incapace di accumulare profitti, stona completamente con il rispetto sacrale dovuto al capofamiglia nel patriarcato nipponico atavico… un altro valore tradizionale perduto?
L’essenza delle cose.
Nel terzo capitolo “Il signore degli uccelli”, si racconta dell’incontro di Sukegawa con un altro bottegaio poco realizzato, come lui, un venditore di uccelli, che ha il negozio sempre vuoto, sia di pennuti di valore sia di clienti. Le loro vite sembrano avere molti parallelismi, a cominciare dal rapporto con le rispettive mogli, che li disprezzano per non riuscire a provvedere ai loro bisogni, anche siano una gonna o paio di mutande.
La differenza sostanziale tra le entità moglie-marito viene sottolineata brutalmente: mentre i due uomini discutono pomposamente sullo scomparire delle peculiarità della tradizione giapponese causato dall’occidentalizzazione, la discussione viene interrotta da una sonora flautolenza della moglie del venditore di uccelli.
Cosa dire… per quanto si possa dedicare la vita alla ricerca di un senso o di un non-senso, è la realtà con tutte le sue istanze e bassezze che in ultimo ha la precedenza. Ma non solo: un sonoro peto può fermare e ridicolizzare i predicatori del niente impegnati in uno sproloquio sui massimi sistemi e come un koan portare all’illuminazione. E’ come un vento che spazza via l’indesiderato: la satira a base di peti è stata spesso usata per criticare cambiamenti sociali e politici.
Il capitolo prosegue con la condivisione tra i due di un’altra vecchia storia, che riguarda un ‘maestro cacciatore di uccelli’, capace di attirarli solo fischiando, e dei tempi gloriosi in cui tutto sembrava avere un significato. Ma anche in questo caso la moglie li interrompe: ”Passate tutto il tempo a parlare dell’essenza delle cose.. ma che senso ha quello che fate voi?”
Riflessioni sul valore dell’ozio.
Anche Yamai, l’amico proprietario di una libreria, non fa altro che dormire tutto il giorno. «Perché fai così?», chiede Sukegawa. E Yamai risponde: «Chissà, forse a ispirarmi sei stato proprio tu… […] Vendere pietre raccolte nei dintorni… sai bene che non le comprerà nessuno. E se non le vendi, in fondo è come se non facessi niente. Non credi che sia un po’ come dormire?». «Se non sei utile, la gente ti considera un rifiuto. In fondo, essere inutili è come non esistere.»
Quindi, se nessuno è interessato al tuo lavoro, tu non esisti: una riflessione molto amara, che potrebbe aver portato all’azione/non-azione l’autore Tsuge, che decide con quest’opera di non aggiungere altro, di abbandonare il campo. Ecco una delle chiavi di lettura del libro: l’oziare contrapposto a quella modernità che, figlia del capitalismo, non tollera più la figura “eversiva” del pigro o di chi non è all’altezza di produrre.
In Giappone l’uomo morale era colui che si ritirava in meditazione, ma anche in Oriente il pigro non è mai stato accettato socialmente e dedicarsi profondamente al proprio lavoro è la base della moralità. Il concetto di ozio, in una società capitalistica come il Giappone nei periodi Showa o Meiji, ha quindi in sé un carattere fortemente sovversivo: piuttosto che pensare alla società, al capitale, l’ozioso preferisce starsene appartato, a non far nulla.
Ma nel lasciare “le cose come sono” si può anche trovare un collegamento al concetto di giapponese di Natura, Shizen, che significa “essere così come si è da sé stessi”; nella pratica buddhista, una delle strade per trovare l’illuminazione consiste nell’imparare dalla natura, accettarla e accettare noi stessi e le cose come sono. Ecco forse che la presenza del suiseki non è poi così casuale, e la chiave di lettura che vede Tsuge come un praticante dello Zen non è così astrusa.
(Fine seconda parte)
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