“La bellezza dello spazio vuoto nella cultura e nella pittura giapponese” di Shozo Koike ( Prima parte )
Lo yohaku no bi ( 余白の美 ) è un concetto prettamente, esclusivamente giapponese. Le traduzioni di questo termine sono molteplici ma sommate una all’altra ci permettono di comprendere:
“La bellezza di ciò che manca”
“La percezione estetica del vuoto”
“La bellezza del bianco rimanente”
Prima di procedere, è necessario confrontare la pittura occidentale con quella orientale, in particolare con quella giapponese, due forme d’arte, due culture millenarie estremamente diverse.
I grandi maestri occidentali hanno dipinto capolavori fitti di personaggi, di architetture, di simboli, addirittura nella “Ronda di notte” di Rembrandt sono raffigurati ben trentaquattro personaggi.
La Ronda di notte, Rembrandt, 1642 Da Wikipedia, L’enciclopedia libera
Rembrandt esprime la sua maestria con le figure, con l’essere umano, il suo stile è caratterizzato dal pathos. Tutto è spiegato, esposto nei minimi dettagli e quello che non si può spiegare è indicato, sottinteso con i simboli.
Noi siamo solo degli spettatori, fortunati e privilegiati, ma spettatori.
Un altro chiaro esempio sono le nature morte. E’ soprattutto nell’Europa del Nord che la natura morta diventa uno dei temi preferiti della pittura fiamminga e tedesca. La religione protestante diffusasi in questi paesi vietava la raffigurazione di Cristo, della Madonna, dei Santi. Per questo motivo, in questa area ricca di pittori insigni, ebbe tanto successo un genere minore come la natura morta.
Nella tela di Floris van Dyck conservata al Riijksmuseum, così limpida, accurata e realistica, ci accorgiamo che la frutta non rappresenta solo uno dei doni più generosi che la Natura offre all’uomo: l’uva è un simbolo eucaristico ed evoca la futura redenzione, la mela ricorda il peccato originale, addirittura il formaggio era considerato cibo del digiuno e ricordava l’atmosfera cupa della Quaresima.
Tavolo apparecchiato con frutta e formaggio, Floris van Dyck, 1615 ca. Amsterdam, Rijksmuseum Copyright: Pubblico dominio
Allo spettatore resta solo il compito di “leggere” il quadro e ammirarlo.
Pare addirittura che la pittura occidentale soffra di horror vacui.
Al contrario, nella pittura giapponese, il pittore lascia ampi spazi che sembrano vuoti ma sono lasciati all’immaginazione, alle emozioni, alla fantasia dello spettatore.
Osserviamo il dipinto di Hasegawa Tōhaku ( 長谷川等伯) “Bosco di pini” Shōrin-zu byōbu ( 松林図屏風 ) conservato al Museo Nazionale di Tokyo. Si tratta di una coppia di paraventi (byōbu), ognuno composto da sei pannelli di carta washi e dipinti con inchiostro nero, con la tecnica sumie.
Hasegawa Tōhaku “Bosco di pini” Shōrin-zu byōbu (Pannello di sinistra) Museo Nazionale di Tokyo
La pittura tradizionale cinese insegna che esistono tre livelli all’interno di un quadro: il primo è in basso e l’occhio dello spettatore si deve abbassare, il secondo è al livello dell’occhio dello spettatore, il terzo è in alto e lo spettatore deve alzare lo sguardo.
Ben lontano da questi rigidi canoni estetici, Tōhaku ha colto un angolo di natura giapponese, un bosco di pini nella foschia. Quattro o cinque alberi sono appena suggeriti, i tronchi sottili sono dipinti con l’inchiostro nero con tutte le sfumature del grigio; utilizzando gli effetti che un pennello più o meno caricato di inchiostro permette, l’artista ha espresso la qualità propria ad ogni elemento, le foglie, i tronchi, le radici appena affioranti.
Il grande spazio bianco sullo sfondo non è vuoto, le sagome dei pini che scompaiono nella nebbia ci fanno intuire la vastità del bosco.
Al centro, in alto, le montagne si intravedono appena.
E’ una rappresentazione che non ci opprime, anzi ci invita ad entrare nel bosco, a passeggiare su un tappeto morbido di aghi.
Nell’ampio spazio bianco, Tōhaku ha “dipinto” anche l’aria fresca, profumata dall’aroma pungente della resina.
E’ più importante ciò che sembra mancare piuttosto ciò che è dipinto.
Con una tecnica monocroma – apparentemente limitata – l’artista ha espresso il sentimento poetico che caratterizza la tradizione giapponese dell’epoca Azuchi Momoyama ( 安土桃山時代 ) lasciandoci però la libertà di immergerci nella sua opera , di interpretarla secondo la nostra sensibilità o stato emotivo.
Lo yohaku no bi lascia spazi aperti, è infinito, incantato, non ha limiti, esprime la speranza di continuare.
Un altro esempio di questo stile pittorico ce lo offre il monaco zen Sesshū Tōyō.
Un piccolo aneddoto che tutti gli scolari giapponesi conoscono racconta che Sesshū da bambino era molto irrequieto e un giorno il suo maestro, esasperato, lo legò ad un pilastro del tempio. Il piccolo pianse e pianse e le sue lacrime formarono una piccola pozza, con la punta del piede usò le sue lacrime per disegnare con un solo tratto (筆描き hitofudegaki ) un topo perfetto.
Sesshū visse in Cina per imparare la tecnica di pittura ma la lasciò presto dicendo che la Cina non più aveva nulla da insegnargli.
Il famoso dipinto Haboku sansui-zu ( 破墨山水図 ) è stato lasciato ai suoi allievi come se fosse un testamento spirituale e tecnico sullo stile pittorico da realizzare. Il dipinto è composto da picchi lontani, un bosco, un lago, una casa, una barca ma non è un paesaggio reale, è nato nel suo spirito, le pennellate sono scure, piene di forza. La composizione è classica ma lo stile è quasi astratto, l’artista ha estratto dal paesaggio la sua essenza.
Sesshū Tōyō Haboku sansui-zu (particolare), 1495 Museo Nazionale di Tokyo (Tesoro Nazionale)
Anche se il termine yohaku no bi è prettamente estetico e pittorico, scivola con naturalezza nella filosofia zen (la filosofia dell’equilibrio) e nei concetti di vuoto (ku空) e di nulla (mu無 ) .
Credits.
Shakkei Group ringrazia l’autore del testo Shozo Koike, pittore e insegnante sumie, per averci avvicinato con tanto ‘cuore’ a concetti così profondamente correlati con la sua arte e con il suo essere giapponese. Non potevamo trovare un maestro migliore.
L’autore.
Nato in Giappone, a Okaya (Nagano), Shozo Koike vive e lavora in Italia dall’inizio degli anni Novanta. Dopo gli studi presso l’Accademia di belle arti Taiheiyo, a Tokyo, e un percorso lavorativo e artistico in terra nipponica, si trasferisce in Italia, a Firenze, per diplomarsi all’Istituto per il restauro “Palazzo Spinelli” e seguire il corso di disegno all’Accademia di Belle Arti. Nel 2010 si trasferisce a Casale Monferrato dove continua a dipingere, svolgere l’attività di restauratore e insegnare la pittura tradizionale giapponese sumie. E’ autore del libro “L’arte giapponese della pittura a inchiostro“, in cui, passaggio dopo passaggio, mostra le tecniche di base per dipingere 18 soggetti tradizionali giapponesi, ricordando sempre che “non si dipinge per dimostrare la propria bravura ma per esprimere sé stessi“.
“Se tu guardi un albero e vedi soltanto un albero non hai visto un albero. Se guardi un albero e vedi un miracolo allora finalmente hai visto un albero”. ( A. De Mello )
La resilienza degli alberi è quella particolare capacità che hanno alberi e foreste di resistere a eventi avversi che li colpiscono e di adattarsi alle nuove opportunità che si manifestano (Giorgio Vacchiano).
E’ la magia dell’albero, un invito a trovare una relazione profonda tra noi e la natura stessa. L’albero come giardino: diventa un luogo d’incontro tra natura e cultura, ne diventa il riflesso. Contemplare la natura e coglierne la vera essenza in una illimitata connessione delle cose, in continuo mutamento, forma e distruzione, morte e rinascita, e che dunque non può prescindere dall’essere, dall’accadere, concepita nello spazio e nel tempo. Natura dunque come Essenza e Tempo, come Essere-Tempo.
Ed è proprio di questa Essenza che voglio raccontarvi la storia, di un albero che dobbiamo imparare a guardare, dello spirito che si cela in esso, di quella forza divina che si manifesta e lo contraddistingue: ciò che nella mitologia giapponese è definito “kodama” (木魂).
“Impariamo alfabeti e non sappiamo leggere gli alberi”… scrive Erri De Luca, ci si accorge che le piante hanno un carattere diverso, c’è chi risplende in forza e flessibilità come il bambù, chi ha la tranquillità della Quercia, e chi invece, la tenacia del Noce.
Ed è proprio del Noce la storia che vi voglio raccontare, il Juglans major, un albero monumentale all’interno del Museo Orto botanico di Roma, in cui ricordiamo la presenza di una ventina di esemplari monumentali di altre specie.
Sarà forse per passione o per leggenda, ho voluto credere che in questa storia incredibile si celasse qualche misterioso segreto della natura, quasi un potere sovrannaturale che quel giorno mi ha regalato la certezza che dietro ogni albero c’è qualcosa di più grande e potente, tanto da salvare il protagonista di questa così strana avventura.
Tutto è accaduto un pomeriggio della metà di maggio 2008, sono passati dodici anni e il ricordo è ancora vivo nella mia mente. E’ stato improvviso! unsuono sordo, un lento e inesorabile piegarsi verso la terra accompagnato dallo spostamento d’aria ha congelato il mio sguardo. Il gigantesco Noce si è accasciato al suolo lentamente, senza far rumore. La morbidezza del fogliame piegato dal peso della chioma ha trasmesso all’albero quella flessibilità, che gli ha permesso di non venire spezzato, ma di adagiarsi lentamente alla sua terra assumendo la posizione che attualmente occupa.
L’Orto botanico di Roma è un giardino storico, presenta un interesse pubblico e come tale possiamo considerarlo un monumento. Il giardino richiede cure continue da parte di personale qualificato, il cui compito non è soltanto quello di far crescere e prosperare le piante in uno spazio verde, ma di mantenere l’armonia di qualcosa di vivo e in continuo mutamento, di custodire e conservare la specie.
E così si è intervenuti subito, per capire la soluzione migliore per salvare la vita dell’albero. Dopo un’attenta analisi si è provveduto ad una potatura di rami rotti o spezzati e quaranta metri cubi di terriccio per ricoprire parte della zolla che si era sollevata dal terreno esponendo in superficie circa il cinquanta per cento dell’apparato radicale. Un gesto di cura che ha permesso all’albero di autorigenerarsi e risvegliarsi a nuova vita.
Oggi il Noce a distanza di dodici anni è ritornato ad essere forte e vigoroso dando origine ad altri alberi, ciascuno dei rami esili nel fianco non adagiato a terra ora sono diventati i fusti di “un bosco spontaneo del vecchio tronco”, cambiando la sua precedente forma architettonica vegetale.
Curiosità: in Giappone il bonsai è l’arte del paesaggio, si prende in prestito dall’osservazione della natura, e così tra i tanti stili nel bonsai ce ne è uno chiamatoikadabuki (stile a zattera da tronco). Con questo termine viene realizzato in vaso uno stile che rappresenta la storia di un albero crollato, ed i suoi vecchi rami sono diventati alberi di un tronco allungato ma saldato alla base.
Che non sia questa la forma naturale dell’architettura del nostro Noce dal quale prendere spunto?
Afferma Chubachi Yoshiaki, nella sua pubblicazione “Una discussione sul suiseki” del 1934, che i suiseki sono simili a “dipinti a inchiostro monocromatici. Sono figurativi e impliciti ed hanno un “vuoto” intorno a loro che lascia più spazio all’interpretazione e quindi essi hanno una maggiore profondità in termini di rappresentazione della vera bellezza della natura.”
La mostra online proposta da Dai Okumura ai giorni di oggi aveva come soggetto una serie di foto in bianco e nero risalenti agli anni ’50-60, scattate da un appassionato di pietre dell’epoca.
“Mi piace il suiseki. Preferisco sentire l’aria circostante (vuoto) della pietra piuttosto che concentrarmi solo sulla pietra stessa, poiché l’oggetto non è sempre il soggetto, come una fotografia o una calligrafia o un’architettura o una cerimonia del tè o una vita o qualsiasi altra cosa incorniciata da bordi. Io vedo suiseki. Ho scattato fotografie delle fotografie di suiseki per te.” (Dai Okumura) Mr. Okumura vive a Chiba, vicino Tokyo, e si occupa di antiquariato e di arte moderna.
In un treno giapponese affollato all’ora di punta, vige il silenzio, esso è palpabile, rispettato e proprio il silenzio crea spazio dove spazio non c’è.
Ho subito amato queste vecchie immagini di suiseki, e le fotografie scattate da Mr.Okumura per valorizzarle e rendere visivamente ‘l’aria circostante‘. Esse evocano uno stato senza tempo e uno spazio profondo e dilatato.
Amo queste vecchie foto di suiseki degli anni ’50, forse perché l’adesso è il luogo dove creiamo il nostro passato ed il nostro futuro. O forse, perché questi suiseki sono così simili a quelli dei giorni nostri, ma non sono gli stessi.
D’un tratto, il tempo è tangibile e racchiuso nel lascito di ricordi e di chi ci ha preceduto.
Anche ora, ancora.
L’aria circostante
Una mostra online di Dai Okumura
I like suiseki. I prefer to feel its surrounding air (blankness) of the stone rather than to focus on just the stone itself, as the object is not always the subject, like a photograph or a calligraphy or an architecture or a tea ceremony or a life or whatever framed with borders. I see suiseki. I took photographs of the photographs of suiseki for you.
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