Sacri legni

Sacri legni

Personale di Shoko Okumura, a Milano dal 17 novembre al 16 dicembre 2023

Comunicato stampa 


 

Il progetto artistico Sacri Legni segna il graditissimo ritorno dell’artista giapponese Shoko Okumura alla galleria Manifiesto Blanco, dopo la sua personale del 2020, Finestre di luce nei boschi.

Questa nuova mostra nasce dall’innata attrazione di Shoko per gli alberi, soprattutto nei confronti dei venerabili “patriarchi arborei” che sopravvivono nelle aree sacre in prossimità dei templi giapponesi. Quando viene varcata la soglia di uno di questi spazi sacri, racconta l’artista, si percepisce qualcosa di speciale: un cambio degli umori atmosferici, un afflato spirituale, il manifestarsi di una presenza.
Spesso, se le condizioni ambientali risultano favorevoli, gli alberi possono avere delle vite infinitamente più lunghe di quelle umane, e in Giappone esiste una specifica cerimonia, denominata Tobusatate (とぶさたて), che viene celebrata quando un albero viene abbattuto per fornire il legname per la costruzione di un santuario o di un torii, il caratteristico portale che segna l’accesso ad un’area sacra. Il rito prevede che un ramo prelevato dall’albero venga inserito al centro del ceppo principale: infine si ringrazia l’albero per averlo potuto utilizzare. Parte delle opere qui in mostra sono appunto ispirate a questa pratica rituale: la pittura viene stesa direttamente su sezioni di hinoki – il cipresso giapponese, un albero considerato sacro – e la composizione pittorica viene calibrata in corrispondenza del centro del tronco, poiché anche questo particolare è importante nella cerimonia sacra del Tobusatate. I materiali fittili sui quali sono state eseguite le pitture provengono direttamente dal Giappone, e più precisamente da Nishikawa Baum, un’azienda forestale di Hanno, nella prefettura di Saitama, che l’artista ringrazia sentitamente.
Questi sono alcuni degli alberi a cui l’artista si è ispirata, e ad ognuno di essi è stato associato un codice che ne permette la geolocalizzazione. I ritratti arborei qui in mostra rappresentano effettivamente la condizione attuale di ogni albero, ma, utilizzando questi codici, anche le generazioni successive potranno identificarli e riconoscerli, e quindi vederne l’aspetto e la condizione vegetativa negli anni a venire: potrebbero essere cresciuti di più, ma in alcuni casi potrebbero anche essere stati abbattuti, o la foresta potrebbe addirittura essere scomparsa del tutto, a causa della pressione antropica sul territorio di pertinenza.

Ogni dipinto raffigura una scena effimera tratta dal mondo naturale, che si riflette nell’acqua increspata, invitando a meditare sulla transitorietà della vita stessa.
Le proprie vicende personali – tra cui una grave e recente malattia – hanno spinto Shoko a riflettere su come contribuire maggiormente alla conservazione della natura attraverso la pratica artistica, e a cosa rimarrà dopo la sua scomparsa. La malattia o la perdita della salute portano spesso a percepire, con dolorosa prossimità, il “qui ed ora” legato a quella breve parentesi che è, in fondo, la vita umana, considerata nella successione prospettica delle varie epoche storiche. Questa serie di ritratti di alberi scaturisce dunque da meditazioni di questo genere, che certamente hanno una radice connaturata nella tradizione spirituale e culturale shintoista, ispirata più dall’apprezzamento e dalla gratitudine per i doni della natura piuttosto che dal timore delle forze in essa manifestantesi: in questo universo brulicante di vita cosciente, tutto scorre e ogni cosa viene carezzata dal lieve pennello dell’artista.
Al centro di questa esposizione c’è un impegno ecologico significativo che esprime il desiderio profondo dell’artista di promuovere la conservazione ambientale: parte degli incassi contribuirà alla creazione e manutenzione di una foresta reale; Manifiesto Blanco si impegna a far crescere la foresta con la partecipazione di artisti, soci e visitatori, garantendo un futuro più verde e sostenibile.
Il progetto verrà sviluppato con il partner Treedom, che certificherà le azioni reali sul territorio.


 

Shoko Okumura nasce in Giappone nel 1983 e si laurea in Pittura Tradizionale Giapponese alla Tokyo University of the Arts. Nel 2008 riceve una prestigiosa borsa di studio stanziata dal governo giapponese e, subito dopo la laurea, si trasferisce in Italia per approfondire i suoi studi d’arte.

Negli anni più recenti la sua attività è estesa anche al Giappone, dove ha esposto presso alcune note gallerie d’arte, tra cui Takashimaya e Mitsukoshi art gallery. Altre prestigiose collaborazioni si sono concretizzate nell’ambito della fashion, con lavori commissionati da Serapian Milano, Homo Faber Venezia e Toma shoes nell’ambito della Milano Fashion Week: infine ha realizzato un’opera site-specific per l’hotel Bulgari di Tokyo.


17 novembre –  16 dicembre 2023

Da martedì a sabato h. 16 -19
INGRESSO LIBERO
VERNISSAGE giovedì 16 novembre h. 18,30.
In questa data l’artista sarà presente in Galleria

INFORMAZIONI attraverso il sito www.manifiestoblanco.com

MANIFIESTO BLANCO
via Benedetto Marcello 46, Milano
info@manifiestoblanco.com | mobile: 3895693638 | www.manifiestoblanco.com

 

A Roma la mostra “Storie di pietra”

A Roma la mostra “Storie di pietra”

Dal 13 ottobre 2023 al 14 gennaio 2024

Comunicato Stampa.

Compagne delle nostre fantasticherie, le pietre, più antiche della vita, hanno esercitato sugli esseri umani un fascino di cui ognuno di noi condivide l’esperienza: una raccolta, un lancio, una contemplazione ammirata. Poeti e artisti di tutte le epoche artistiche hanno testimoniato le profonde influenze che queste presenze silenziose hanno avuto sulle loro creazioni stampa, detta Yokohama Shashin.
ll grande scrittore surrealista Roger Caillois, la cui raccolta di notevoli esemplari minerali costituisce il prologo di questa mostra, descriveva così questo rapporto insistente: “Più di una volta mi è capitato di pensare che fosse opportuno guardare alle pietre come a una sorta di poesia.”
Accompagnata dalla prosa dello scrittore, la mostra Storie di pietra è il romanzo di questa frequentazione continua che rivela come questi minerali occupino una posizione decisiva tra il capriccio della natura e l’opera d’arte.

La mostra Storie di pietra presentata a Villa Medici ha beneficiato dei prestiti di oltre 70 istituzioni e raccoglie quasi 200 opere, dal più antico minerale terrestre risalente a 4,4 miliardi di anni fa fino all’ultimo minerale creato dall’artista contemporanea Agnieszka Kurant, la Sentimentite. Il percorso si snoda in dieci sale espositive e prosegue nell’antica cisterna di Villa Medici, negli appartamenti del Cardinale Ferdinando de’ Medici e nell’atelier Balthus.

Le suggestioni che queste pietre hanno suscitato negli artisti di tutte le epoche ci permettono di misurare fino a che punto i nostri pensieri, i nostri miti, le nostre proteste e, talvolta, anche le nostre inquietudini abbiano beneficiato della loro vicinanza. Vi dialogano riuniti, al di là delle contingenze della Storia, pietre ai margini dei sentieri e cristalli ambiti, pietre votive, semplici rovine o armi dei deboli per difendersi dai potenti, oggetti di studio scientifico, di contemplazione romantica. E tra gli Uomini, dalle società megalitiche ai grandi nomi della modernità, troviamo Auguste Rodin o Giuseppe Penone, Charlotte Perriand o Antonio Tempesta, Tatiana Trouvé o Facteur Cheval; tutti, ispirati dai loro misteri sedimentati, sono gli araldi di questa vasta narrazione.

Il catalogo è pubblicato dalle edizioni Delpire & Co.
Collettivo Histoires de Pierres, sotto la direzione di Sam Stourdzé e Jean de Loisy – delpire & co (delpireandco.com)
 
Estratto dal catalogo:
Sono questi sassi indifferenti e rudi che celebrano con storie i devoti allucinati e gli artisti ispirati. Sono queste rocce che la ragione titubante del Rinascimento (a metà strada tra scienza e magia) analizza, sono queste pietre che gli studiosi cinesi raccolgono, vedendo nelle fessure, nelle caverne, nelle pieghe della materia delle fughe, delle porte per lo spirito, è attraverso di loro che indoviniamo le austere geometrie che congelano la meccanica del mondo.

ROMA
LUOGO: Accademia di Francia a Roma – Villa Medici 
INDIRIZZO: Viale della Trinità dei Monti, 1
ORARI: dal lunedì alla domenica dalle 10.00 alle 18.30 (chiusura il martedì).

CURATORI: Jean de Loisy, Sam Stourdzé

ENTI PROMOTORI: MUSÉUM NATIONAL D’HISTOIRE NATURELLE

TELEFONO PER INFORMAZIONI: +39 06 67611

SITO UFFICIALE: http://www.villamedici.it/mostre/histoires-de-pierres

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’isola non trovata

L’isola non trovata

Storia di una pietra

(Pubblicato sul numero di Settembre 2009 del “Bonsai & Suiseki magazine”)


Inizio con una citazione, senza paura di essere perseguita, perché cito me stessa : “Ogni pietra ha tante storie : la sua storia geologica, a noi sconosciuta, la storia che l’ha portata fino a noi, la storia che la lega a noi e che la rende speciale ai nostri occhi, la storia che non vedremo mai.

Questa è la storia di una pietra, che prima di essere mia è stata di qualcun altro, e che prima ancora è stata forgiata da forze non immaginabili, in tempi non concepibili dai nostri sensi.

Prima di me


Come fare a descrivere processi e tempi che la nostra mente, abituata a ragionare in termini di tempi biologici, quasi si smarrisce ?

Dalla formazione della terra dalla nebulosa primordiale, passando per fenomeni drammatici come glaciazioni, eruzioni, innalzamenti ed abbassamenti della crosta terrestre, derive delle zolle terrestri, pressioni, sedimentazioni ed erosioni, ogni pietra è una capsula di tempo che illustra il progresso di un drammatico viaggio che dura da centinaia di milioni di anni.

Comunque sia andata, questa pietra era lì da sempre, sul greto di un fiume giapponese, quando un uomo, ultimo arrivato sulla Terra, nonostante l’arroganza e la presunzione con cui in genere guarda alla Natura ed alle sue opere, ne colse la presenza e la bellezza.

Comunque sia andata, questa pietra dal greto di un fiume giapponese giunse nella casa di un uomo giapponese, che apprezzava nelle pietre il gioco delle forme e dei colori, ma anche qualità più intime: ne vedeva i sottili segni delle loro trasformazioni, la resistenza, la perseveranza, la pazienza con cui si erano opposte alle forze che le avevano plasmate, fino a farne un accumulo “vivente” di tempi e vicende.

Ogni ferita imposta dalla Natura gli ricordava che le pietre, nonostante la loro consistenza ed apparente solidità, non sono affatto immutabili ma piuttosto destinate a modificarsi e trasformarsi.

Anche per le pietre, quindi, come per l’uomo, essere impermanente, il ciclo della vita ha imposto un eterno cambiamento.

Anche per l’uomo, quindi, come per le pietre, è possibile accettare e sopravvivere alle pressioni della vita che lo plasmano.

Questo uomo decise quindi di perdurare insieme alle sue pietre : quando seppe di essere gravemente malato, nel timore che nessuno dopo di lui le comprendesse fino in fondo, dispose che le sue pietre continuassero a vivere in altre case, in altri continenti, apprezzate da altri occhi. Egli si “fece montagna”.

Insieme a me


Dal fiume Ishikari, in Hokkaido, dalla collezione di un giapponese che praticava l’arte del suiseki, è giunta fino a me questa pietra sottile, caratterizzata da una superficie ondulata che varia tra il liscio ceroso ed il granulare, dalla linea semplice ed essenziale.

In base al suo luogo di origine, è una Kamui Kotan. In base alla sua forma, è una Shimagata ishi, cioè una pietra isola.

In lingua Ainu, Kamui Kotan significa “luogo dove vivono gli dei” ed è una valle in cui scorre un tratto del fiume Ishikari, dove si possono trovare pietre dal nero intenso fino al verde scuro.

Per me, è stata subito la “pietra frittella”, e con questo nomignolo l’ho presentata al popolo del Forum, per un consiglio sul tavolo da esposizione più adatto per delle linee così essenziali. Ma non avrei disdegnato l’esposizione in un suiban, in qual caso il discorso sul tavolino andava riveduto e corretto in funzione delle dimensioni del vassoio.

Ovviamente il termine pietra frittella non voleva essere il nome poetico della pietra: anzi, avendola sott’occhio tutti i giorni, accarezzandola ogni tanto per apprezzarne la superficie setosa, guardandola con i diversi tagli di luce che il giorno e la stagione possono offrire, mi chiedevo sempre più spesso : ‘Un’isola, sì, ma quale?’. Fermarsi e pensare, guardare dentro se stessi mentre con gli occhi si vede una pietra, permettere che momenti vissuti, suggestioni, poesie, musiche emergano da quello spazio dell’anima dove si sedimentano le emozioni.

Dimora di esseri mitologici, cannibali e antropologi felici, nascondiglio dei tesori dei pirati, i naufraghi vi lanciano le loro richieste di aiuto in bottiglia, le nazioni le loro bombe atomiche, e adesso corrono il rischio di essere sommerse dall’innalzamento delle acque.

Perduta, del giorno dopo, che non c’è, l’isola infatti è per sua natura non facilmente raggiungibile, sfuggente, inafferrabile, ma anche il luogo dove rifugiarsi abbandonando il caos moderno.

Dice Shakespeare : l’isola è fatta della stessa materia dei nostri sogni, è un luogo fisico ma anche e soprattutto immaginario, dove c’è spazio per i miraggi, l’amore, le avventure, le leggende e … i reality shows.

Terra del mito del Buon Selvaggio, di Peter Pan, di Nausicaa, è la terra del regno di Utopia, l’isola di Tommaso Moro, luogo inesistente (dal greco ou-topia), meta di chi cerca il significato ultimo e mai trovato della vita, ma anche luogo felice (dal greco eu-topia), e chi sceglie di navigare verso quest’isola sta cercando qualcosa di molto simile alla felicità.

Dunque, un luogo felice inesistente: ma esistono forse luoghi felici ed esistenti ? Certamente no, eppure vanno cercati, perché sono l’emblema stesso della ricerca umana, interiore e non, itinerario di fuga dalla vita quotidiana verso una diversa dimensione dell’essere, metafora del cammino umano alla ricerca della Verità Assoluta come dell’Amore Eterno, del senso e della mancanza di senso della vita.

Troppo per una pietra?


Ma bella più di tutte è l’isola non trovata,
quella che il Re di Spagna s’ebbe da suo cugino,
il Re del Portogallo, con firma suggellata
e bulla del pontefice in gotico latino.

Il Re di Spagna fece vela cercando l’isola incantata
però quell’isola non c’era e mai nessuno l’ha trovata.
Svanì di prua dalla galea come un’idea;
come una splendida utopia è andata via
e non tornerà mai più.

Le antiche carte dei corsari portano un segno misterioso,
ne parlan piano i marinai con un timor superstizioso.
Nessuno sa se c’è davvero od è un pensiero;
se a volte il vento ne ha il profumo.
È come il fumo che non prendi mai.
Appare a volte avvolta di foschia magica, e bella,
ma se il pilota avanza su mari misteriosi è già volata via
tingendosi d’azzurro color di lontananza.


In questa canzone del 1971 di Francesco Guccini, a sua volta ispirata da una poesia di Guido Gozzano ‘La più bella’, trovo splendidamente condensate queste mie divagazioni : ecco quindi battezzata la pietra frittella, che nelle esposizioni avrà come nome poetico ‘L’isola non trovata’.

Insieme a voi: storia pubblica di un suiseki


Quando scelgo una pietra, ne faccio oggetto di cura, osservazione e valutazione e la carico di significati che, partendo dalla sua natura geologica mai disconosciuta, si fanno anche culturali, spirituali e simbolici.

Per me l’esposizione di un suiseki è la condivisione con altri di questo processo, è l’ulteriore valorizzazione di una pietra tramite la condivisione con gli osservatori di un microcosmo racchiuso nello spazio finito di un tokonoma e nello spazio infinito delle emozioni : proposito impegnativo e forse irraggiungibile, di sicuro ambizioso, ma altrettanto stimolante.

Come oggetti di accompagnamento ho scelto uno kakejiku giapponese denominato “Wave” ed un piccolo granchio in bronzo poggiato su ceramica.

L’onda corre verso la sottile striscia di terra emersa e sembra sommergerla, quindi nel complesso un immagine lontanissima da ogni realismo naturalistico. Ma più che la fedeltà al reale ho ricercato la fedeltà al senso profondo, ma visibile, del reale.

Nell’insieme, il dipinto sembra preponderante rispetto alla pietra, nonostante l’esposizione nel suiban richiami l’immensità dell’oceano.

Dopo di me


Questa parte della storia è ancora da scrivere e non sarò io a farlo, ma posso provare ad immaginarla in un gioco di fantasia.

Forse mio figlio chiuderà la pietra frittella in un cassetto.

Forse mio figlio, giunto alla maturità, continuerà con la pietra “L’isola non trovata” il gioco dell’apprezzamento e della coltivazione.

Forse mio figlio la venderà.

Forse, per non correre rischi, io stessa, come il suo precedente proprietario, me ne separerò a tempo debito e mi farò montagna.


Il magico studio fotografico di Hirasaka

Il magico studio fotografico di Hirasaka

Un libro di Sanaka Hiiragi


“Il lavoro in camera oscura divenne il solo piacere che Hirasaka riusciva a trovare nella propria situazione. Nel buio immergeva la carta fotografica nella soluzione di sviluppo, poi, dopo una breve attesa, cominciava ad affiorare un’immagine. Definire i contorni delle figure umane, sfocare leggermente lo sfondo. Valorizzare le luci. Trattava ogni scatto come un’opera d’arte, se la prefigurava nella sua forma migliore e cercava di avvicinarsi il più possibile a quell’immagine ideale. Lo faceva per i morti, che si incamminavano verso l’altro mondo custodendo negli occhi la loro ultima fotografia ma anche per sé.”

C’è molto, in questo libro della scrittrice giapponese Sanaka Hiiragi, tutto quello che abbiamo bisogno di trovare: il senso della vita, di quello che lasciamo, di quello che ci portiamo, per arrivare a cogliere la bellezza del presente. Chi ama la fotografia troverà pane per i suoi denti, tra metafore e poesia.

Esplora le vite e la morte di tre persone, Hatsue, Waniguchi, Mitsuru, a cui viene offerta, prima di svanire per sempre nella luce della lanterna girevole, l’opportunità di rivedere, attraverso tante fotografie quanti sono stati i giorni vissuti, tutta la propria vita, con l’aiuto gentile del fotografo signor Hirasaka. Nelle vicende di una colta insegnante ultra novantenne, di un membro della Yakuza, di una bambina di sette anni pesantemente maltrattata troviamo una vita completa e dedita agli altri, una vita iniqua ma precocemente fermata da mano assassina, una vita che iniziava a sbocciare e che non ha avuto modo di esprimersi. I tre dovranno scegliere, tra le tante fotografie, una sola per ogni anno, inoltre viene data loro la possibilità di tornare, invisibili e senza poter cambiare gli eventi, ad un momento della loro vita di cui scattare, essi stessi, l‘ultima fotografia, quella forse più rappresentativa di tutta una vita. Nella camera oscura della loro guida, il signor Hirasaka, emergerà a poco a poco una fotografia magicamente perfetta, l’ultima istantanea di tutta una vita e che ne racchiude il senso.

“Guardando questa fotografia mi sono tornate in mente tante cose. Tanti ricordi di quel periodo”. La signora Hatsue osservava attentamente l’immagine. Si accorse che era composta da una miriade di piccoli grani, mille puntini colorati. Era solo una combinazione di colori, e invece i quattro lati di quel rettangolo racchiudevano tutti i suoni, il vento, gli stati d’animo e l’atmosfera del momento in cui la fotografia era stata scattata. Tutto nascosto da qualche parte dietro ai punti colorati. 

E’ proprio vero che le fotografie hanno una loro forza, disse calmo Hirasaka.

Infine, l’ultimo passo: guardare tutta la vita che scorre, composta dalle fotografie montate sulla lanterna girevole dei ricordi. I giapponesi le chiamano “sōmatō”: utilizzate in Cina come illuminazione e introdotte in Giappone nel periodo Edo come divertimento notturno estivo, erano composte da una parte interna girevole, che veniva azionata con il calore di una candela, che proiettava sulle pareti esterne in carta di riso le sagome rotanti di cavalli.

Pur essendo ormai poco utilizzate, anche nelle moderne versioni elettriche, ne è rimasto invece il significato idiomatico: rivivere vecchi ricordi in uno stato di emozione intensa, anche di pericolo, come quando i ricordi del passato scorrono come immagini uno dopo l’altro nella mente proprio come le sagome rotanti di un sōmatō.

Una lanterna girevole. Si accende la luce e comincia a ruotare. Le immagini del passato, impresse su carta di riso, diventano motivi floreali attraversati da bagliori rossi e gialli, e girano e girano: così se la ricordava.
“Dunque, signor Hirasaka, ricapitolando: adesso devo scegliere delle fotografie in numero pari a quello dei miei anni e comporre la lanterna girevole insieme a lei, giusto? Poi la guarderò ruotare, troverò la pace e completerò il mio ciclo.”
Aveva ancora del lavoro da fare, quindi. Anche da morta, gli impegni c’erano sempre.
“Una volta arrivati qui, poco conta che uno sia stato un grand’uomo o un miliardario: con noi possiamo portare solo i ricordi.”
Hatsue osservò la montagna di fotografie che torreggiava su di lei. Quanto ci avrebbe messo a guardarle tutte?
Nell’epoca dei computer e degli smartphone, le lanterne girevoli si costruiscono ancora a mano… Chi l’avrebbe mai detto?”

Quando la lanterna si fermerà, proprio sull’ultima fotografia scattata, la coscienza del defunto diventerà tutt’uno con la luce, assorbita da essa fino a svanire.

Non voglio svelare proprio tutto della trama… che legami ci sono tra i tre visitatori? E il ruolo del signor Hirasaka è solo quello di fotografo e gentile accompagnatore nell’aldilà? In realtà, chi sta aspettando, il signor Hirasaka, e perché? Qualcuno avrà una seconda occasione?

Questo libro mi è stato regalato, casualmente, in un momento in cui ne avevo bisogno. Appassionata di fotografia, ho sempre preferito fotografare invece di parlare. So anche di aver fotografato per non dimenticare e anche se sono ancora su questa terra ho uno scatolone pieno di sedici anni di vita e di fotografie, una scatola che sono stata costretta ad aprire e sfogliare, purtroppo da sola. Una lanterna girevole di sole sedici foto, una per anno: quali sceglierei per la mia lanterna in vita? E se ne potessi scattare di nuovo una, in quale momento vorrei poter tornare? Un viaggio a ritroso nella memoria, tra i ricordi cristallizzati in una comune istantanea, che restituisce l’illusione di aver arrestato la fuga del tempo, la perdita dolorosa di situazioni e persone.

Infine, se Italo Calvino, ne “L’Avventura di un fotografo” preconizzava ironicamente:

“Ah che bello, bisognerebbe proprio fotografarlo! E già siete sul terreno di chi pensa che tutto ciò che non è fotografato è perduto, che è come se non fosse esistito e che quindi per vivere veramente bisogna fotografare quanto più si può.”

come la mettiamo con le immagini create da AI ? Non sono fotografie, direte, e già l’avvento del digitale aveva visto svanire il fascino della camera oscura e dell’apparire dal nulla di quanto la luce ha impresso sull’emulsione. Il mondo va avanti, inesorabilmente, ma da qualche parte, forse, un vero fotografo ci aspetta.



La luna tra i rami

La luna tra i rami

“Dovremmo guardare i fiori di primavera solo in piena fioritura, o la luna solo quando è limpida e senza nuvole?

Piuttosto che guardare una limpida luna piena che brilla per migliaia di leghe, è infinitamente più commovente vedere la luna vicino all’alba e, dopo una lunga attesa, tingersi del più bel blu pallido, una luna intravista tra i rami delle criptomerie nelle profondità delle montagne, la cui luce è ora nuovamente nascosta dalle nuvole che si addensano in un temporale autunnale.

La luce umida della luna sulle foglie lucide del noce e della quercia bianca della foresta trafigge il cuore e fa desiderare la capitale lontana e un amico di vera sensibilità che condivida il momento con voi.

I fiori e la luna sono solo cose da guardare con gli occhi? No, è più soddisfacente e piacevole rimanere in casa in primavera e, lì nella vostra camera da letto, lasciare che il vostro cuore vada verso la notte invisibile illuminata dalla luna.”

(Tsurezuregusa – Ore d’ozio –  Yoshida Kenkō)


“La luna tra i rami”


Mon’yo seki – Tsukigata ishi
Pietra con disegno
Vietnam
Coll. Daniela Schifano


La sensibilità giapponese predilige la suggestione, l’allusività, la frammentarietà e l’indefinito piuttosto che il realismo e la compiutezza. E, almeno per me, il suiseki non fa eccezione: la sua dovrebbe essere una bellezza solo suggerita, sfuggente e allo stesso tempo profonda, che racchiude una pienezza di senso ma impossibile da descrivere compiutamente. “Il bello ch’è bello subito ha già in sé molto spirito di volgarità”, scrive Fosco Maraini, e aggiungo che viene subito a noia. E poichè anche parlare troppo viene a noia, vi lascio riflettere ponendo una domanda: quale bello cercate in un suiseki?

Il bello sfacciato, immediato, esplicito oppure le zone intermedie, gli spazi indefiniti e carichi di suggestione?

“Mentre in Occidente si ha la pretesa che il linguaggio, la tecnica, la ragione umana possano cogliere e coincidere con l’essenza della realtà, il pensiero orientale ha sempre sottolineato l’inadeguatezza del linguaggio e del pensiero logico a esprimere la realtà ultima, e di conseguenza l’opera d’arte stessa viene avvicinata più all’istinto che non all’intelletto e alla cultura.


Il testo riportato è tratto dal paragrafo 137 del “Tsurezuregusa”, letteralmente  Appunti presi durante le ore d’ozio, una raccolta di scritti redatti principalmente tra il 1330 e il 1333 da Yoshida Kenkō, anche se il manoscritto più antico è datato 1431, quasi cento anni dopo la sua morte. Si dice che Kenkō annotasse i suoi pensieri ‘sparsi’ dietro le lettere ricevute o i sutra. Quelli che non gli piacevano li incollava alle pareti del suo rifugio invece di buttarli via. Era certo di averli distrutti tutti quando morì. Ma dopo la sua morte vennero staccati dai suoi allievi che poi tentarono di metterli in ordine in un’opera. Così nacque il Tsurezuregusa, che ancora oggi si studia nelle scuole giapponesi. L’opera non è considerata un testo sull’estetica giapponese nella sua interezza ma contiene molti elementi che permettono di comprenderne alcuni: suggestione, irregolarità, semplicità, impermanenza.

E’ composto da 244 paragrafi compresa la premessa ed è uno dei tre capolavori del genere letterario Zuihitsu, insieme a “Makura no soshi” di Sei Shōnagon e “Hojoki” di Kamo no Chomei.

“Per far passare il tempo non avendo niente da fare seduto davanti alla pietra da inchiostro per tutto il giorno, annoto a caso i pensieri senza senso che mi vengono in mente e se ne vanno, ho la strana sensazione di demenza…” Questa è la famosa prefazione.

L’autore è generalmente conosciuto con il suo nome da sacerdote buddhista, Kenkō. Nato forse nel 1283, il suo vero nome era Urabe no Kaneyoshi e proveniva da una famiglia di sacerdoti shintoisti del tempio Yoshida. Fu uomo di Corte e un noto poeta, ma nel 1324 si allontanò e prese i voti buddisti, vagabondando per il paese e rifugiandosi nei templi. Alla fine si stabilì in una capanna su una collina a Kyoto dove morì forse nel 1350.


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