“Dovremmo guardare i fiori di primavera solo in piena fioritura, o la luna solo quando è limpida e senza nuvole?

Piuttosto che guardare una limpida luna piena che brilla per migliaia di leghe, è infinitamente più commovente vedere la luna vicino all’alba e, dopo una lunga attesa, tingersi del più bel blu pallido, una luna intravista tra i rami delle criptomerie nelle profondità delle montagne, la cui luce è ora nuovamente nascosta dalle nuvole che si addensano in un temporale autunnale.

La luce umida della luna sulle foglie lucide del noce e della quercia bianca della foresta trafigge il cuore e fa desiderare la capitale lontana e un amico di vera sensibilità che condivida il momento con voi.

I fiori e la luna sono solo cose da guardare con gli occhi? No, è più soddisfacente e piacevole rimanere in casa in primavera e, lì nella vostra camera da letto, lasciare che il vostro cuore vada verso la notte invisibile illuminata dalla luna.”

(Tsurezuregusa – Ore d’ozio –  Yoshida Kenkō)


“La luna tra i rami”

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Mon’yo seki – Tsukigata ishi
Pietra con disegno
Vietnam
Coll. Daniela Schifano


La sensibilità giapponese predilige la suggestione, l’allusività, la frammentarietà e l’indefinito piuttosto che il realismo e la compiutezza. E, almeno per me, il suiseki non fa eccezione: la sua dovrebbe essere una bellezza solo suggerita, sfuggente e allo stesso tempo profonda, che racchiude una pienezza di senso ma impossibile da descrivere compiutamente. “Il bello ch’è bello subito ha già in sé molto spirito di volgarità”, scrive Fosco Maraini, e aggiungo che viene subito a noia. E poichè anche parlare troppo viene a noia, vi lascio riflettere ponendo una domanda: quale bello cercate in un suiseki?

Il bello sfacciato, immediato, esplicito oppure le zone intermedie, gli spazi indefiniti e carichi di suggestione?

“Mentre in Occidente si ha la pretesa che il linguaggio, la tecnica, la ragione umana possano cogliere e coincidere con l’essenza della realtà, il pensiero orientale ha sempre sottolineato l’inadeguatezza del linguaggio e del pensiero logico a esprimere la realtà ultima, e di conseguenza l’opera d’arte stessa viene avvicinata più all’istinto che non all’intelletto e alla cultura.


Il testo riportato è tratto dal paragrafo 137 del “Tsurezuregusa”, letteralmente  Appunti presi durante le ore d’ozio, una raccolta di scritti redatti principalmente tra il 1330 e il 1333 da Yoshida Kenkō, anche se il manoscritto più antico è datato 1431, quasi cento anni dopo la sua morte. Si dice che Kenkō annotasse i suoi pensieri ‘sparsi’ dietro le lettere ricevute o i sutra. Quelli che non gli piacevano li incollava alle pareti del suo rifugio invece di buttarli via. Era certo di averli distrutti tutti quando morì. Ma dopo la sua morte vennero staccati dai suoi allievi che poi tentarono di metterli in ordine in un’opera. Così nacque il Tsurezuregusa, che ancora oggi si studia nelle scuole giapponesi. L’opera non è considerata un testo sull’estetica giapponese nella sua interezza ma contiene molti elementi che permettono di comprenderne alcuni: suggestione, irregolarità, semplicità, impermanenza.

E’ composto da 244 paragrafi compresa la premessa ed è uno dei tre capolavori del genere letterario Zuihitsu, insieme a “Makura no soshi” di Sei Shōnagon e “Hojoki” di Kamo no Chomei.

“Per far passare il tempo non avendo niente da fare seduto davanti alla pietra da inchiostro per tutto il giorno, annoto a caso i pensieri senza senso che mi vengono in mente e se ne vanno, ho la strana sensazione di demenza…” Questa è la famosa prefazione.

L’autore è generalmente conosciuto con il suo nome da sacerdote buddhista, Kenkō. Nato forse nel 1283, il suo vero nome era Urabe no Kaneyoshi e proveniva da una famiglia di sacerdoti shintoisti del tempio Yoshida. Fu uomo di Corte e un noto poeta, ma nel 1324 si allontanò e prese i voti buddisti, vagabondando per il paese e rifugiandosi nei templi. Alla fine si stabilì in una capanna su una collina a Kyoto dove morì forse nel 1350.


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