Articolo di Martin Pauli
Quarta parte : Il piacere del suiseki
Traduzione di Fabio G. Pasquarella
Il piacere del suiseki.
Un suiseki non è altro che un frammento di roccia.
Non possiamo aspettarci di sentire immediatamente il movimento della natura nella pietra, e lasciare che il nostro spirito si giovi di quel mondo. Tuttavia, anche un semplice elemento di attrazione nell’osservare le pietre, può essere sufficiente per sviluppare un interesse specifico per il suiseki, che verrà approfondito insieme alla propria evoluzione spirituale.
Dall’osservazione e analisi del “tokonoma kazari“, ossia il modo in cui il suiseki viene presentato nel tokonoma, si può immediatamente capire il gusto, l’abilità e la suggestione immaginativa del proprietario. Se ne può dunque percepire anche la sensibilità, per non parlare del suo senso estetico e della consapevolezza raggiunta. Persone con gusti simili proveranno lo stesso brivido e la stessa gioia guardando un particolare suiseki kazari.
In altre parole, la preparazione di un “kazari” per una pietra richiede una profonda conoscenza e apprendimento in diversi campi come la poesia, la letteratura, i dipinti e gli strumenti per realizzarli, nonché il simbolismo soggiacente a tutte queste arti. Questo è il motivo per cui si dice che l’interesse per il suiseki si estende nei profondi recessi dello spirito umano.
Tuttavia, non è necessario considerare il suiseki come un interesse particolarmente costoso ed esigente. Si può iniziare divertendosi nella ricerca di una pietra, che suggerisca ad esempio una forma come quella di una montagna, per posizionarla in un vassoio o su un supporto. Piuttosto che esporre la sola pietra, si può lasciare che l’immaginazione prenda il volo considerando le possibilità per uno sfondo.
L’interesse per il suiseki sviluppa una sensazione di quiete e un arricchimento stimolante per l’anima, diventando una fonte di energia nelle attività quotidiane. Cogli questa opportunità per sviluppare un interesse per questo mondo affascinante e istruttivo.
Kazari.
“Tokonoma kazari” o “tokokazari” è il termine usato per l’esposizione nel “tokonoma” di una casa tradizionale giapponese, mentre “suiseki kazari” viene utilizzato per l’esposizione pubblica. Il kazari nel tokonoma ha come base i temi stagionali.
La stanza e gli oggetti nella casa giapponese
Lo sviluppo architettonico della casa ha influito su forma e carattere artistico di utensili e oggetti, in Giappone come in Occidente. I fattori più importanti che determinano lo sviluppo dello stile degli oggetti in Giappone sono l’assenza di pareti stabili e solide, il rischio di incendi, e il rivestimento del pavimento con stuoie, i tatami. Questi elementi di paglia di riso, spessi e morbidi, vengono utilizzati negli usuali atti quotidiani come consumare i pasti, sedersi e dormire, e sono di dimensioni conformi agli standard.
Lo svolgimento della vita casalinga avviene a un livello più basso, rendendo superflui tavoli, sedie, letti e la maggior parte degli altri arredi, piuttosto ingombranti, conosciuti in Europa. Tavolini piccoli e maneggevoli vengono utilizzati per leggere, scrivere e mangiare, e quando è ora di andare a letto vengono srotolati semplici materassi. Tutti questi oggetti scompaiono durante il giorno dietro le ante scorrevoli dei pensili a muro, che comunque contengono solo gli oggetti più necessari.
Ciò che serve appare al bisogno e scompare quando diventa superfluo. Gli oggetti giapponesi sono lì per ragioni pratiche e non hanno carattere decorativo. La magia della loro bellezza e semplicità si dispiega solo, dunque, quando vengono messi in uso.
A causa del rischio dovuto a terremoti e incendi, gli oggetti di valore sono ben imballati in casse di legno, depositate in contenitori ignifughi, che si trovano adiacenti a tutte le case tradizionali giapponesi. Le stanze contengono solo quegli oggetti momentaneamente in uso, e comunque non se ne potrebbero mettere molti di più poiché le pareti non sono solide. Porte scorrevoli flessibili e facilmente rimovibili chiudono gli ambienti su tre lati. Quelle all’esterno sono ricoperte con carta trasparente chiamata “shoji”, e quelle sul lato dei vicini sono ricoperte con carta opaca chiamata “fusuma”. La quarta parete è solida e contiene gli armadi e/o il tokonoma.
Il tokonoma
Il posto d’onore della casa è riservato a una nicchia leggermente rialzata, generalmente grande come un tatami, profonda 90 cm larga 180 cm e alta circa 200 cm, in cui sono esposti determinati oggetti, selezionati in onore di un ospite o semplicemente per conferire più qualità alla stanza. La stanza giapponese appare piuttosto vuota. Niente di ingombrante rovina la stanza. Tale spazio potrebbe contenere un disegno a china o una calligrafia in una cornice di broccato, accuratamente scelta e abbinata. L’opera viene messa in risalto da uno sfondo raffinato e armonico, di colore marrone tenue, “cha iro” , tè verde, o anche “ha iro”, grigio-cenere, incorniciato dalle sfumature nobili del legno e i colori delicati e modesti dei tatami e delle pareti.
Potrebbe trovare posto anche un vecchio vaso di ottone con un fresco ramo fiorito, un brucia incenso in ferro o di ceramica “koro“, un libro, una custodia per scrivere “suzuribako” o una pietra “ishi“.
Ci sono varie teorie sull’origine del tokonoma. Potrebbe essere stata inizialmente un’alcova per dormire, dimensionata quel tanto che basta per un letto. Successivamente il pavimento dell’alcova è stato rialzato rispetto al livello del pavimento. L’alcova è stata poi allargata alle dimensioni di due stuoie, per poi contrarsi nuovamente. Al suo interno poggiava un tappetino.
Essa si trasformò successivamente per accogliere un ospite di alto rango, con un altro tappetino posizionato a livello del pavimento. A volte a formare l’alcova venivano disposti degli schermi perimetrali.
Nel periodo Kamakura (1185-1333), fino all’ultima parte del periodo Muromachi (16 sec.), l’alcova disponeva di un pavimento rialzato che poteva essere utilizzata come sedile o pianale. Alla fine del periodo Kamakura, un’immagine buddista veniva appesa alla parete, costituendo così il punto focale del tokonoma. Davanti al dipinto era posta una tavola per esporre oggetti, “oshi-ita”, su cui erano esposti un vaso di fiori, un brucia incenso e un candeliere. Questi tre oggetti hanno una certa importanza per il buddismo, e sono indicati come i tre strumenti, “mitsugusoku“.
Nel periodo Muromachi (1392-1568) divenne consuetudine appendere un kakejiku con l’iscrizione calligrafica di un sacerdote Zen, insieme al vaso di fiori e al brucia incenso. Il candeliere è stato quindi omesso. Nel periodo Momoyama (1568-1615), l’alcova assunse la sua forma a noi più familiare, e fu usata principalmente per esporre preziosi oggetti d’arte.
Le dimensioni e la disposizione dell’alcova variavano secondo i diversi gusti dei maestri del tè. Un vecchio documento, ad esempio, ne menziona una lunga 180 cm adiacente a una sala per la cerimonia del tè, usata da Murata Jukô (1423-1502). Questa nicchia era ricoperta con carta bianca giapponese chiamata “torinoko“, e aveva cornici di lacca nera. Takeno Jô (1502-1555) preferiva invece un’alcova più piccola e una sala per la cerimonia del tè.
Sen Rikyû (1522-1591) utilizzò nicchie con diversi stili oggi diffusi. Le caratteristiche di quelle in stile “shoin” e di quelle in uso nelle case del tè furono fuse e divennero comuni nelle abitazioni più ordinarie.
I tokonoma sono denominati con una grande varietà di nomi come “kamizadoko” (lett. alcova del sedile superiore), e “shimozadoko” (lett. alcova del sedile inferiore). A volte prendono il nome dal maestro del tè che li ha progettati, ad esempio lo “oribedoko”, o per la particolare larghezza, come nel “daimedoko, un “tokonoma” con base in legno che si trova in una piccola sala per la cerimonia del tè, e che raramente supera i 4.5 tappetini, “yojohan“.
Come gestire lo spazio
La parola “ma“, spazio, ha un significato molto speciale per i giapponesi. Lo spazio non è solo ciò che occupiamo e dove viviamo.
Anche quando conversano tra loro, valorizzano lo spazio fisico tra le persone così come il ritmo della frase, alternando il silenzio alle parole.
Lo spazio è una necessità della loro vita quotidiana.
Nel mondo delle arti e dei mestieri, lo spazio è sempre stato un argomento di discussione e l’obiettivo di una ricerca di adeguatezza e proporzioni.
Nel tokonoma kazari si pone l’accento sullo spazio per lo stesso motivo, in un modo peculiare. Ad esempio non viene squalificato il posizionamento di oggetti minori, quanto piuttosto attraverso lo spazio viene indicata la scala di importanza degli oggetti da esporre. In sintesi, lo spazio stesso viene elevato a elemento del tutto.
Lo spirito dell’esposizione
Il significato dell’arte dell’esposizione è conferire un certo status alla creazione o alla collezione del suo proprietario, mostrando inoltre le tecniche sviluppate e l’estetica della scena suggerita.
Una piccola e naturale ambientazione stagionale, all’interno di uno spazio limitato, consente all’immaginazione dello spettatore di catturare l’illimitatezza dell’universo. Ed è così che l’essenza della vita stessa si dispiega davanti ai suoi occhi. Il verbo “mettere in scena” è spesso usato in relazione al tokonoma kazari. Questo verbo sottolinea in particolare l’atto di creare l’esposizione, mentre l’intento è quello di conferire grazia, gusto ed eleganza.
Gusto raffinato e eleganza pongono l’accento sull’artista.
Per visualizzare gli oggetti in modo efficace può essere necessario un allestimento, ma il metodo non è mai l’obiettivo. Il tokonoma kazari non richiede necessariamente bonsai, suiseki o strumenti e accessori costosi. Un’atmosfera elegante richiede solo semplicità e modestia. Il tokonoma kazari può essere considerato in un certo senso l’arte della consapevolezza.
Estetica
Per una migliore comprensione dell’estetica giapponese, davvero unica, potrebbe essere utile studiare tre importanti ideali estetici utilizzati per esprimere la bellezza: sabi, wabi, yûgen.
Sabi
Costituisce un’idea di bellezza particolarmente importante nella cerimonia del tè e nella poesia haiku. La bellezza è riferita in special modo a materiali o spazi, che nel tempo si sono consumati fino a inaridirsi e invecchiare. Frequente soprattutto nelle case del tè, nei suoi utensili e nei suoi giardini, inizialmente fu un ideale estetico medievale, e includeva aspetti di rassegnazione, vecchiaia, decadenza, solitudine, distacco e tranquillità. Il sostantivo “sabi” deriva dal verbo “sabu” svanire, e dall’aggettivo “sabishii“, solitario. Suona anche come il sostantivo “sabi” che significa ruggine, o più in generale si riferisce alla qualità invecchiata di un oggetto.
Fujiwara Shunzei (1114-1204) includeva il sabi nel giudizio critico in ambito poetico, riferendosi a uno stato d’animo di desolazione. Il sabi può essere riconosciuto anche nel sentimento di meravigliosa solitudine, descritto da poeti eremiti quali Saigyô (1118-1190). Per gli scrittori del XV sec. come Zeami (1363-1445) e Shinkei (1406-75), sabi divenne una specie di algida bellezza, associata alle qualità positive di “kare“, appassito e “hie“, freddo. La sua presenza può essere rilevata in diverse forme d’arte durante il XIV e il XV sec. Alla fine del XVII sec., una certa interpretazione del sabi era particolarmente diffusa non solo tra i poeti haiku, ma era anche un aspetto importante della “pittura haiga”, influenzando indirettamente altri stili di pittura legati all’haiku. Questa tendenza era rappresentata in particolare da Matsuo Bashô (1644-94), e altri della sua generazione.
Wabi
È un ideale estetico di origini medioevali che trova il cardine di bellezza e profondità filosofica nelle cose umili e povere. Tale concezione si ritrova nella poesia “waka”, “renga” e haiku, e come elemento dominante nel “chanoyu“, qui chiamato spesso “wabi cha” o tè in stile wabi.
Derivato dal verbo “wabu“, languire, e dall’aggettivo “wabishi“, solitudine spirituale”, il termine wabi fu usato per la prima volta nella poesia antica per descrivere la disperazione di un amante abbandonato. In seguito arrivò a denotare le aride circostanze fisiche e spirituali del poeta solitario. Le originarie connotazioni negative di questo termine si sono quindi evolute in una prospettiva più positiva, identificata esteticamente in particolare con la capanna dell’eremita, ovvero con gli aspetti imperfetti e irregolari della natura.
La concezione wabi fu sviluppata per la prima volta nel “chanoyu” da Murata Jukô (1423-1502). Egli usò termini, già visti nel sabi, come “hie” e “kare“, per esprimere la desolazione e la qualità diciamo terrigena degli strumenti introdotti nella cerimonia del tè. I suoi studenti hanno dunque iniziato a tenere le cerimonie in una capanna con il tetto di paglia, “sôan” o “chashitsu“.
Queste strutture, imitazioni della capanna di erba dell’eremita, sarebbero poi diventate il simbolo per eccellenza del “wabicha“.
Takeno Jô (1502-55) estese il concetto wabi definendolo come un vero e proprio atteggiamento, aperto e diretto, ma anche umile e premuroso. Per Jô, citando il “waka” di Fujiwara Teika (1162-1241), il quale asseriva che l’essenza del wabi era catturata dalle foglie cremisi del tè, tale categoria estetica era semplicemente rappresentato da una capanna arroccata su una baia, di sera.
Ma la sintesi esemplare del wabi e del chanoyu fu raggiunta da Sen no Rikyû (1522-91), quando sviluppò il sôan chashitsu a due stanze – capanna da tè con tetto di paglia -, che utilizzava semplici e rustici utensili, anche in “raku“, e includeva contenitori di fiori di bambù e altri oggetti. Rikyû diede ancora più spessore metafisico al wabicha, sottolineando come la capanna del tè fosse il luogo ideale dell’esperienza Zen di liberazione della mente.
Il peculiare senso estetico legato al wabi invita a trovare la ricchezza nella povertà e la bellezza nella semplicità e nell’illuminazione, raggiunta attraverso la disciplina artistica, definita “wabisuki“: una fusione di wabi con la parola “suki” piacere estetico. Il wabisuki è raggiunto, nella sua fase ultima, come “gokuwabi” o “wabi dell’estremo“. Tale stato ideale a cui aspirare fu concepito dal nipote di Rikyû, Sen no Sôtan (1578-1658).
Il concetto di wabi fu trasmesso a una varietà di discipline chashitsu tra cui architettura, ceramica e altre arti legate al chanoyu. Il wabi ha anche svolto un ruolo nella conoscenza e nel collezionismo di dipinti, calligrafie e suiseki. Inoltre, il wabi ha dominato l’estetica dei pittori della fine del XV e del XVI sec., incarnato dallo stile grezzo e naturale del Sôtan o stile dell’erba.
Yûgen
Lo yûgen è un ideale estetico medievale polivalente che esprime oscurità, profondità, mistero, caducità, ambiguità, quiete, tristezza ed eleganza. Il termine ha avuto origine in Cina, conosciuto come youxuan, e significava verità taoista o buddista al di là della comprensione intellettuale. Nella prefazione cinese al “Kokinsû“, Ki no Yoshimochi (scomparso nel 919) usava yûgen per denotare la profondità nella poesia antica. Nel XII secolo, yûgen era usato come criterio di valutazione nei concorsi di poesia “uta-awase”, riferendosi sempre a un significato profondo, oltre le apparenze.
Pannello di sinistra dello schermo Pine Trees (松林図 屏風, Shōrin-zu byōbu), c. 1595
Schermo a sei pieghe, inchiostro su carta, Tesoro nazionale (Immagine di pubblico dominio)
Fujiwara Shunzei (1114-1204), tuttavia, ampliò considerevolmente lo yûgen nel contesto della poesia, includendo sia lo stile che il concetto stesso. Shunzei ha integrato lo yûgen con aspetti di “yojô“, sfumature, evocando associazioni non apertamente espresse, così da riflettere una raffinata sottigliezza di pensiero ed emozione. Yûgen è anche legato all’idea buddista Tendai di “shikan“, che paradossalmente mette in relazione forma e assenza di forma, superficie e profondità, suggerendo la compenetrazione di tutte le cose.
Il figlio di Shunzei, Teika (1162-1241), aderì a questo ideale, ma aggiunse un aspetto di “yôen“, fascino etereo, che ebbe una grande attrattiva presso le generazioni successive. Kamo no Chômei (1155-1216) connotava lo yûgen con un’indeterminatezza di cuore e parole, espressa in ciò che è incolore, indistinto ed emotivamente trattenuto. Per gli scrittori successivi come Yoshida Kenkô (1283-1350) e Shôtetsu (1381-1459), lo yûgen costituiva un sentimento che non poteva essere espresso a parole, soffocato nell’intensità cromatica di un’elegante emozione.
Lo yûgen di Chômei, nella sua enfasi sull’incompletezza, il vetusto, lo sbiadito, ha visto un’evoluzione nell’aspetto superficiale del termine, indebolendo il suo elemento intellettuale e spirituale.
Il teorico e drammaturgo “Nô” Zeami (1363-1443) applicò in modo sublime lo yûgen alla recitazione, esprimendo una bellezza vivida e serena, e descrivendo metaforicamente il termine come un uccello bianco che trattiene un fiore nel becco. Il maestro renga Shinkei (1406-75) ha ribadito l’essenza spirituale dello yûgen, associando la creazione di versi raffinati a uno stato mentale puro, nato dall’accettazione buddista del mondo. L’austera concezione dello yûgen di Shinkei, connessa a una fredda malinconia “hiesabi“, fu ulteriormente raffinata all’insegna di una bellezza desolata e arida dal drammaturgo Nô Komparu Zenchiku (1405-68).
Lo yûgen ha svolto un ruolo fondamentale negli ideali estetici di “sabi” e “wabi“, ed è stato quindi espresso indirettamente nell’intera gamma di arti associate al “chanoyu” come nel wabicha. La concezione della bellezza derivata dall’aspetto imperfetto della natura, che potrebbe suggerire la profondità spirituale che alberga sotto la superficie, è l’essenza ideologica del wabi. Inoltre, lo yûgen di Shinkei, specificamente sfiorito e arido, sembra aver influenzato direttamente i primi artefici del wabicha, Murata Jukô (m. 1502) e Takeno Jôô (1502-55).
Lo yûgen è stato utilizzato in modo esplicito nella via del tè, in particolare nell’estetica “kireisabi” risalente alla metà del XVII sec. di Kobori Enshû (1579-1647), il quale prese Teika come modello. Anche il nome “Tan’yû” dato all’artista della scuola Kanô – precedentemente conosciuto col nome Morinobu (1702-74) – dal sacerdote Daitokuji Kôgetsu Sôgan (1570-1643), è probabilmente correlato al gusto per lo yûgen poiché entrambi studiarono la via del tè sotto Enshû.
( Fine quarta e ultima parte )
Credits.
Shakkei Group ringrazia Martin Pauli, che ci ha dato il suo consenso a pubblicare il suo studio approfondito sulle correlazioni tra suiseki e la particolare, se non unica, visione della Natura in Giappone, nella versione completa tradotta in italiano. Per una migliore fruibilità, il testo è stato suddiviso in quattro parti, nel rispetto del piano dell’opera.
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