Bunjin

by | Nov 5, 2021 | Zuihitsu | 0 comments

Bunjin

Bunjin, nel suo significato più corretto, non dovrebbe essere considerato un vero stile, ma un modo per creare bonsai di qualsiasi tipo e forma. Alcuni giapponesi credono che ci sia una differenza tra “vero bunjin” e “stile bunjin“. Altri giapponesi considerano Bunjin l’unico vero bonsai, una vera progenie dell’estetica Zen.

La spiritualità diventa l’elemento chiave nell’interpretazione dello stile bunjin. La “raffinata preziosità” dell’origine cinese e le formalità imperiali e militari del mondo giapponese sono quindi evitate. Bunjin è lo stile rappresentativo del bonsai, è l’essenza del bonsai.

Lo spirito che è alla base di bunjin è attribuibile a Lao Tse (taoista cinese) nato nel 2500 aC. Poi nel 600 d.C., lo spirito bunjin arriva in Giappone, ma solo dopo il 1200 d.C. si diffonde e si evolve.

Bunjin è una traduzione del cinese Wenrenhua, la parola usata in cinese per indicare quegli studiosi che si esercitavano nelle arti. Questi intellettuali cinesi hanno rifiutato la gloria, la posizione sociale e la ricchezza. Si dedicarono allo studio dell’uomo e vissero spesso come eremiti.

La pittura cinese dei letterati (wenrenhua 文人畫), Bunjin in giapponese, si considera sia del genere paesaggistico che di quello del bambù, ed è correlata alla propria teoria ed ha affascinato artisti e sinologi occidentali dall’inizio del XX secolo, formando così la loro comprensione generale di estetica classica cinese. Questo fascino ha favorito la ricerca delle principali differenze tra i principi e gli obiettivi della pittura cinese e occidentale, così come la loro base in una particolare ontologia e cosmologia.

(Foto di Gianni Girard)

Molti studiosi concordano che il maggior impatto sulla pittura del paesaggio cinese e le sue idee deriva dalla filosofia taoista classica, in particolare da Zhuāngzǐ  (369 a.C. – 286 a.C.), che è estetica nella sua essenza.

Il filosofo Zhuāngzǐ  ha esortato le persone ad assumere un atteggiamento estetico e contemplativo nei confronti della vita: guadagno e perdita, successo e fallimento, giusto e sbagliato, merito e demerito, dimenticare il sé e le cose, soggetto e oggetto, il sé e gli altri, e quindi lasciare che il sé e l’intero universo si fondano in una cosa sola.

La filosofia di Zhuāngzǐ  ci offre la possibilità di imparare a vivere le nostre vite esteticamente, per apprezzare il fatto che tutto ciò che incontriamo sono semplicemente temi e variazioni sulla melodia in continua evoluzione della Grande Trasformazione, ci insegna ad ascoltare e ad apprezzare la Grande Armonia.

Questo particolare atteggiamento contemplativo, estetico e la visione olistica del mondo sono le caratteristiche più importanti, che mettono in relazione Zhuāngzǐ  con i letterati e pittori in generale, nella pittura di paesaggi e bambù in particolare.

Molti pittori e i poeti cinesi hanno ammirato e cercato di incarnare nella loro arte il suo ideale di libertà spirituale, di spontaneità, il vagabondaggio e la solitudine, come il miglior modo per godere di questa armonia onnicomprensiva di cambiamento o “armonia trasformativa”.

Il percorso DAO, via, DO in giapponese, genera valori come:

  • “dimenticare se stessi” (wang wo 忘我)
  • “perdersi” (wu sang wo 吾喪我)
  • “cavalcare se stessi” (wuji 無己)
  • “non-azione” (wuwei 無爲)
  • “digiuno della mente” (xin zhai 心齋)
  • “afferrare le cose con la propria mente” (xin 心)
  • “energia vitale” (Chi 氣)
  • “togliersi le vesti e allungare le gambe” (jieyi panbo luo 解衣般礴蠃)

Con questo, miravano a seguire (o erano paragonati a Zhuāngzǐ ) persone modello, esempi di auto-coltivazione e di “ecocreatività”, come il cuoco o macellaio Ding, il pittore, il cacciatore di cicale, il nuotatore o il falegname.

Alcuni pittori desideravano persino la presenza di Zhuāngzǐ  nella loro vita e nell’arte, ritenendolo l’unico che potesse comprendere il loro ideale di concentrazione spirituale e immersione nelle cose e nell’universo attraverso la pittura.

Questo aspetto ci ricorda anche nel bonsai la vera bellezza bunjin: si evita una ostinata tignosità giovanile e si cerca la freschezza della spontaneità ritrovata.

Un tale ideale taoista di seguire “il modo naturale di produzione“, cioè il Dao, è stato riassunto molto bene nel famoso commento di Fu Zai 符载, poeta e funzionario della dinastia Tang, quando si parla del suo dipinto contemporaneo Zhang Zao:

Quando contempliamo l’arte del Maestro Chang, non è pittura, è il Tao [Dao] stesso.

Ogni volta che era impegnato nella pittura, uno già sapeva di essersi lasciato alle spalle la semplice abilità. Le sue idee raggiungono il buio mistero delle cose, e per lui le cose non stanno in senso fisico, ma nella parte spirituale della sua mente. Il più alto scopo del pittore è , come quello di un saggio taoista o di una persona pienamente realizzata , dispiegare il Dao, per fondersi completamente con il proprio ambiente.

Questo senso di inseparabilità del pittore dal mondo e dalle cose raffigurate nel dipinto è stato spesso descritto da interpreti occidentali e cinesi come “l’unità tra (o armonia, intimità tra) l’uomo e la natura”, o anche come “l’atto di riverenza per la natura”, e in contrasto con il modello occidentale della “separazione dell’uomo e della natura” nell’analisi comparata della pittura cinese e occidentale e della loro estetica, così come le loro idee ecologiche.

Tale particolare rapporto “ecologico” si rivela anche nella pittura cinese e la sua teoria dal concetto di Chi 氣 (vitalità, energia, respiro), divenne uno dei più importanti valori estetici cinesi, soprattutto nelle teorie della letteratura e pittura. Per la sua importanza, la pittura è stata concepita come scambio di energia vitale tra il mondo (cose), il pittore e lo spettatore. Una tale visione potrebbe essere giustificata dai primi e più importanti canoni o elementi (fa 法) della pittura cinese.

L’atto creativo nella pittura cinese, in particolare nella pittura di paesaggio, non può essere trattato come l’atto di rendere omaggio alla natura, come a volte è stato interpretato in Occidente e sottolinea le differenze tra occidentali e cinesi e nei modelli del rapporto tra uomo e natura.

La pittura di paesaggio non è un atto di omaggio alla natura, poiché la natura qui (nella mente del pittore e degli spettatori) non esiste come oggetto esterno di adorazione, attaccamento emotivo o estetico piacere. Questo perché i pittori cinesi preferivano vedere la natura non dal prospettiva umana, ma piuttosto da una prospettiva cosmica ( Dao ), dove l’unità delle cose comprende anche il punto di vista umano. Questa unità aiuta sia il pittore che lo spettatore a non attaccarsi a nessun particolare, cosa o prospettiva, favorendo così l’atteggiamento di “impegno con distacco”.

Tuttavia, tale visione, fondamentalmente influenzata dalle idee di Zhuāngzǐ  sulla simultaneità delle opposizioni e del contemporaneo sorgere di cose, va considerato come solo uno tra i tanti nella tradizione della pittura e dell’estetica dei letterati cinesi, e anche come avere effetti non solo estetici ma anche terapeutici. Ecco perché la contemplazione della pittura di paesaggio è stata considerata da alcuni cinesi, e in seguito da molti occidentali, come un modo per migliorare la propria salute e per mantenere un equilibrio di rapporto con l’ambiente naturale.

Come Zong Bing 宗炳, l’autore del primo saggio sulla pittura di paesaggio, scrisse:

“I saggi, possedendo il Tao, rispondono alle cose; Il virtuoso, purificando i pensieri, assapora le immagini. Quanto al paesaggio, ha esistenza fisica, eppure tende allo spirituale”.

Per essere bunjin, i bonsai devono riflettere questa sensibilità: non appariscente ma nobile di anima, minimamente materiale ma spiritualmente alto. In Giappone, Bunjin è arricchito dalla semplice bellezza.

Il concetto di bunjin è molto profondo ed è molto difficile, ma deve essere studiato perché rappresenta una filosofia molto utile. La sua storia ha origine in Cina dalla filosofia taoista Lao Tse. I letterati che praticavano la cerimonia del tè cominciarono a occuparsene, poi il bunjin divenne un modo di pensare, e oggi è sbagliato considerarlo solo uno stile.

Nella tradizione giapponese esiste un’esperienza che indica l’uso di una serie di accorgimenti per creare un certo effetto o una certa atmosfera, fuzei wo megurashite. Il termine fuzei è composto da fu che significa vento, aspetto, aria, tendenza, stile, tono e zei che significa passione, sentimento, emozione. Il significato della frase indica un aspetto, un’atmosfera o addirittura un certo gusto velato di fascino dotato di una certa emotività, come se questo aspetto, legato alla pietra e il paesaggio avesse il potere di agire sull’emozione umana. Omoshiroshi significa interessante, con una accezione di incantevole o attraente, cioè con la capacità di stimolare una percezione emotiva, che era uno dei grandi ideali estetici aristocratici dell’epoca Heian, cioè quando arrivò in Giappone la cultura cinese. Questo ideale estetico indica uno spazio lasciato a giudizio personale, alla creatività. Il non distaccamento diventa un valore soggettivo che rimane come prassi tradizionale. La frase waga fuzei wo megurashite significa esercitando il proprio gusto, un aspetto che indica la raffinatezza estetica di queste arti.

Con il termine YAWARAKE in giapponese indica in modo docile, ricettivo, con toni smorzati. È un termine che esprime con efficacia l’atteggiamento che deve avere l’artista nei confronti sia della natura, dalla quale trae ispirazione, che dalla propria opera. Da questo atteggiamento nascerà spontaneamente una forma armoniosa. Questo aspetto chiarisce molto un lato della semplicità che si incontra nell’arte giapponese, con questo tono smorzato ma non minimalista, che mantiene sempre un occhio di riguardo per la natura come cosa più bella.

Il filosofo Takeshi individua nella vera bellezza giapponese vari tipi: una vigorosa e robusta legata al samurai Goken, una bellezza elegante e raffinata Yuuga della corte di Kyoto ed una bellezza profonda e misteriosa Yuugen legata ai monaci Zen.

Nei giardini Zen compare questo valore che introduce i segreti interiori della natura e dell’esistenza umana. Lo scenario ci eleva a composizioni astratte di volumi, spazi, tessiture e ritmi. Le rocce ci comunicano significati simbolici di grande profondità.

Nell’età moderna in Giappone, Kin-dai, si formano nuovi stili che si identificano come realismo, naturalismo, Umanesimo, Esteticismo, ecc., movimenti che porteranno alla letteratura moderna e usciranno dalla classicità. Dalla restaurazione Meiji del 1868 in avanti assistiamo all’apertura del Giappone all’Occidente che originariamente era inteso come l’America, e all’assorbimento dei canoni estetici d’oltreoceano, con l’introduzione del concetto di autore che hanno assunto gli artisti giapponesi. Il Giappone dell’epoca Meiji adotta questa corrente europea, e già dopo la seconda guerra mondiale nel contenuto della lingua nazionale si espressero i valori del Bungaku (pura letteratura) e Gei-jutsu (estetica) secondo l’interpretazione europea ottocentesca basata sull’immaginazione creativa dell’io individuale (autore). Nello stesso tempo spariscono i legami con la cultura cinese. Questa situazione motivata dalla politica post guerra ricorda la bipolarità dell’esteticismo giapponese classico del Masuraobi. La nuova democrazia pacifica del 1946 ha soppresso lo spirito Yamato. Solo in epoca contemporanea, Gen-dai, i Giapponesi si sono resi conto che l’estetica occidentale non arrivava dall’America ma dall’Europa, e il rapporto tra la modernità occidentale ed il substrato sociale giapponese porta ai contrasti ed alle crisi estetiche tipiche dei nostri tempi: troppe modernità portano alla crisi di rigetto e fanno riscoprire la costellazione dei valori estetici della cultura giapponese classica che non è basata sulla Teoria dell’arte occidentale.

Nei fenomeni più recenti i valori estetici occidentali ed orientali hanno trovato fonti di ispirazione congiuntamente alle sperimentazioni artistiche mondiali, alla ricerca della bellezza universale. Zen-ei-geijutsu, arte d’avanguardia, in Giappone è presente ma raramente è apparsa nel bonsai, è attiva soprattutto nelle arti della pittura e della calligrafia, nell’architettura, nel giardino, della poesia, nell’ikebana e nella ceramica. In Cina i percorsi artistici degli ultimi anni hanno iniziato a dare spazio alle avanguardie anche nel Penjing.

La mia idea di bonsai d’avanguardia, quando crea il bonsai, lo fa nel massimo rispetto della realtà della natura, rifuggendo dagli stereotipi e salvaguardando uno dei principi fondamentali dell’estetica giapponese: la natura non va imitata, ma si deve imitare il processo creativo che la stessa utilizza per creare. Immaginando di percorrere un viaggio nella natura, alla ricerca delle forme, delle materie, delle venature, dei colori e delle trasparenze che nascono dall’estetica naturale, troviamo la natura creatrice, grande madre, una maestra dalla quale impariamo il processo, cioè il metodo tecnico per raggiungere una bellezza che va oltre la forma degli alberi. In questo senso si va al di là di un puro concetto Giapponese, entrando nell’universalità dell’arte: la natura umana si è evoluta seguendo la bellezza fisica come scoprirono Charles Darwin e Sigmund Freud, e la bellezza dello spirito, come sottolineò Carl Gustav Jung.

La bellezza del vuoto ci permette di scorgere l’eternità del silenzio: è il valore estetico Yohaku , il nulla è il tutto.

Possiamo considerare l’arte bonsai e altre arti giapponesi in tre stili principali: shin, gyoo e soo. Nello shin il gusto è rigido, siamo in formalità e il corrispondente stile bonsai è il chokkan. Lo stile gyoo, è morbido di carattere, è considerato di classe superiore, e dal punto di vista dei bonsai è rappresentato dal moyogi e dal shakan. Lo stile soo è il più libero ed è caratterizzato da linee eleganti e raffinate; il bunjin appartiene ad esso. Questo modo di classificare è basato su personalità, forza, morbidezza e gusto. Bunjin deve quindi essere leggero, magro, morbido, non perfetto, non apparente, ma deve nascondere la forza invisibile e mistica, il potere della natura-vita.

Questa forza non è vista, non è esplicita ma è il fondamento della natura. Un esempio che chiarisce questo concetto è il seguente:

“… un campo in inverno è coperto di neve, tutto è congelato e immobile, il grigio e il bianco ti fanno rabbrividire, tutto sembra morto. Ma in realtà, sotto la neve, nella terra, c’è un seme ed è la vita! “

La parola bunjin deriva dall’ambiente dei guerrieri, che in Cina erano normalmente dignitari, proprietari terrieri e burocrati del governo (IX secolo d.C.). Per essere considerati bunjin dovevano conoscere sette arti: suonare l’arpa, giocare a scacchi, comporre poesie, essere in grado di leggere e scrivere, usare la calligrafia, dipingere e scrivere libri. Erano persone di grandi possibilità che non si erano macchiate della mondanità, ma preferivano vivere da eremiti. In Cina l’età d’oro di questo modo di essere va dal decimo al dodicesimo secolo (Dinastia Sung).

La storia del bunjin giapponese inizia dopo la fine del periodo Kamakura (XIII secolo). In questo periodo nacquero diversi pittori bunjin che vivevano in modo frugale. Per capire il gusto del bunjin, si deve praticare la forma più regolare e sulla base di questo, si comprende il carattere morbido che è agile, facile, spiritoso, elegante e non premuroso, in modo da raggiungere il climax per capire la vera anima bunjin, la quinta essenza della passione.

L’albero del bunjin dovrebbe essere elegante, casual e pieno di poesia e avere un tronco snello, ma non giovane. Tecnicamente non c’è più il concetto di ramo, ma è tutto l’insieme che conta ed è per questo che è il più difficile da fare. Anche il suo contenitore e il tavolo devono essere molto raffinati, evocativi e delicati. Per i Bunjin i giapponesi iniziarono ad usare i tappi delle giare, vasi namban, che erano di aspetto molto povero.

L’immagine ideale ricercata dai cinesi deriva dalla filosofia taoista, e non è esattamente la stessa del concetto di WABI-SABI da cui emerge l’estetica giapponese della bellezza. Inoltre, in Giappone ci sono anche due correnti principali, la prima attorno alla cerimonia del tè e la seconda legata allo spirito dello Zen.

La ricerca della bellezza del vuoto, che è semplificazione, è la bellezza bunjin tipica del Giappone, appartiene al gusto Zen e culmina nel rendere questa caratteristica nella forma del bonsai. In questo senso la bellezza della cultura giapponese è una bellezza da togliere.

In Cina, nella dinastia Ming, incontriamo il culmine della maturazione intellettuale di questi uomini sublimi: persone raffinate e intelligenti, amanti della lettura e della cultura, pittori, calligrafi, maestri del buon gusto, amanti della vita eremitica. Sono persone che comprendono la passione per la natura e hanno un sentimento poetico. Sono collezionisti di pietre, oggetti d’arte per la preparazione di esposizioni in tokonoma, ceramiche e oggetti d’antiquariato in generale. Il bunjin cinese è ancora presente in Cina nel Penjing, ed è molto raffinato ed ancora più minimalista di quello giapponese.

Persino l’ikebana era molto amata soprattutto nell’antichità, in stili che ricordano la pittura a forma libera. Lo spirito bunjin è anche visto nel modo di fare ikebana e godersi la bellezza dei fiori, indifferente alle cose del mondo; questo è il motivo per cui ikebana è libero e non formale, a volte anche senza tecnica. A volte, una composizione con fiori rari o stravaganti, fornisce forme ricche di formalità.

L’albero di bunjin dovrebbe essere un’opera che esprime al meglio la bellezza giapponese. Secondo Uhaku (Susumu) Sudo, discepolo primo del grande maestro Katayama della scuola di esposizione Keido, il bunjin può anche essere considerato un modo di vivere, un percorso per raggiungere l’illuminazione attraverso i bonsai. Conclude che possiamo rendere i bonsai ringraziando per essere vivi e nel rispetto della vita e della natura. Bunjin non è una forma d’arte, perché è vivo, mutevole nel tempo, fugace. Per realizzare un bunjin è importante conoscere il concetto di bellezza del vuoto. Il vuoto è bello perché accetta illimitatamente ogni cosa nell’universo; nel vuoto, ognuno può esprimere ciò che è sentito. Il bunjin deve trovare spazio nel vuoto ma non lo riempie, deve suggerire ma non dire.

I bonsai di classe A sono rari, tipo il Hiryu o Tooryuunomai, immigliorabili, cioè al massimo delle possibilità estetiche, una vera rarità.
I bonsai di classe B sono i premi Kokufu, cioè i capolavori. Invecchiando molto possono diventare A se si riesce ad eliminare veramente tutti i difetti, perché hanno un grande potenziale.
I bonsai di classe C sono quelli che possono entrare nelle grandi mostre come la Kokufu, impegnandosi con grandi lavorazioni per anni, però non sono così belli da poter vincere i primi premi e non possono diventare di classe B
I bonsai di classe C non sono neppure ammessi alla Kokufu perché troppo brutti, i professionisti non dovrebbero neppure occuparsene, anche se per molti amatori dilettanti sarebbero bonsai già molto belli.
Chiaramente qui parliamo del livello professionale top.

Storicamente, nel bonsai giapponese si possono dividere tre periodi:

1) il bonsai classico, quello antico, feudale e soprattutto di epoca EDO che è durato più di mezzo millennio, oggi sopravvissuto veramente puro solo nelle collezioni imperiali. Qui i protagonisti sono il tronco e i rami, tecnicamente erano per lo più da yamadori dove il concetto era raccogliere un buon materiale e mantenerlo con legature minime e potature, il risultato è una forma rada, con rami bellissimi. Effettivamente visti dal vivo sono meravigliosi!


2) il bonsai moderno, del ‘900, dove protagonisti sono il tronco e la vegetazione. Qui la legatura è totale e la forma perfetta, i rami piatti sono coperti dalla vegetazione, anche se i rami sono brutti si coprono di vegetazione. Si tratta di un periodo che va dai primi del ‘900 fino al dopoguerra, circa mezzo secolo scarso, una linea di perfezionismo che inizia con la tecnica di legatura SORERU, perfetta e totale, del mansei-en di Saburo Kato. Questa linea continua in molti autori contemporanei.


3) Il bonsai d’avanguardia, che inizia negli anni di Hamano e poi Kimura e Suzuki, dove c’è da un lato uno sguardo al futuro per le tecniche (es.: sfibrature, innesti incredibili, pieghe estreme, ecc.) e dall’altro lato un ritorno al passato per quanto riguarda la bellezza raffinata dei rami del bonsai antico, quelle delle pitture Sumi-e e dell’estetica della pittura cinese. Qui i protagonisti sono di nuovo il tronco ed i rami, si esaltano i rami belli, sovente alzandoli e legandoli non completamente. Il risultato è il massimo perché sono bonsai che hanno la bellezza del contemporaneo e la raffinatezza del bonsai antico.


Credits.

Shakkei Group ringrazia l’autore del testo Massimo Bandera per aver condiviso, su queste pagine, i suoi approfondimenti su un universo di complessità, travestito di semplicità.


Massimo Bandera

Member of BCI UBI IBS IBI ESA NBC NBA RHS SKB SBI BCI director
Nato nel 1967, vive e opera tra Italia e Spagna e dal 1978 dedica la propria passione e professionalità al mondo dei bonsai.
Nella sua ricerca tecnica ed artistica ha creato una Via contemporanea, in avanguardia, studiando le arti e le scienze in Italia, e in Giappone un confronto culturale di venticinque anni con il maestro Masahiko Kimura, massimo esponente dell’Avanguardia Bonsai.
Membro della Società Botanica Italiana, nel 1999 è stato ammesso a visitare la collezione di bonsai dell’Imperatore del Giappone, e nel 2000 ha fondato la sua scuola, la Fuji Kyookai Bonsai scuola d’avanguardia, presso la Fuji Sato Company, nel 2002 ha aperto la sezione spagnola al Museo Bonsai di Marbella, nel 2010 a Majorca, e nel 2018 a Malaga nell'Orto Botanico della Università.
Vincitore di numerosi premi in Italia, Spagna, Giappone e Stati Uniti, è membro life, istruttore, ambasciatore e direttore dell’associazione mondiale Bonsai Club International.
Istruttore dell’associazione italiana IBS, membro e istruttore UBI.
Nel 2007 le sue opere sono state esposte a Palazzo Bricherasio a Torino e alla mostra del Congresso Fujiyohaku a Nole e Marbella con la partecipazione straordinaria del Maestro Masahiko Kimura alla sua scuola.
Nel 2002 ha pubblicato l’”Enciclopedia Bonsai” e nel 2008 “Bonsai d’Avanguardia”, libri che raccolgono gli insegnamenti di coltivazione, tecnica, estetica e cultura giapponese.
Dagli anni ottanta scrive sulle principali riviste del settore e sul Corriere dell’arte di Torino. I suoi articoli sono pubblicati su: Bonsai Italia, Bonsai italiano e Bonsai arte e Natura, Notiziario UBI,Bonsai and Suiseki magazine in Italia, Bonsai Actual e Bonsai autoctono in Spagna, Esprit Bonsai in Francia, Bonsai Magazine in America, Bonsai Sunjiu e Kindai Bonsai in Giappone.
Nell’aprile 2010 a San Marino durante il XIV Congresso Nazionale Italiano UBI è il primo rappresentante del Belpaese a ricevere un premio di Stato, il Premio al Bonsai del Ministero per i Beni e le Attività Culturali della Repubblica Italiana.
Nel 2015 riceve il titolo cavalleresco di Cavaliere del Santo Sepolcro di Gerusalemme e nel 2019 il titolo di Commendatore dell'Ordine medesimo.

0 Comments

Submit a Comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Ti potrebbe interessare:

Off limits

Off limits

Tutto ciò che fanno i giapponesi, lo fanno con uno scopo e, come tutto ciò che fanno, ha una storia dietro di esso.

Categorie

Pin It on Pinterest

Shares
Share This